Lettera aperta a un direttore di task force per il Recovery Fund

scritto da il 27 Luglio 2020

Osservando la realtà economica e sociale italiana muovere delle critiche risulta spesso più facile che fare delle proposte. Per questo motivo, non di rado chi analizza ed evidenzia le disfunzioni del nostro paese viene tacciato di eccessivo pessimismo e accusato di non fornire alcuna indicazione costruttiva.

In questo breve post proverò a fornire delle proposte su un tema abbastanza caldo come quello del corretto impiego delle risorse derivanti dal Recovery Fund. Immaginiamo di scrivere una lettera al presidente di una immaginaria task force istituita per individuare le modalità ottimali di impiego delle risorse ottenute grazie al programma Next Generation EU (a proposito, avete letto di qualche gruppo di lavoro che si stia occupando del tema?)

Gentile Presidente,

faccio seguito alla sua richiesta di un contributo scritto, per il documento che riepiloga le attività della task force da lei presieduta, riassumendo brevemente di seguito i suggerimenti che ho già espresso durante le riunioni tenutesi fino ad oggi.

In primo luogo è mia convinzione che l’allocazione ottimale dei fondi vada ricercata applicando un criterio abbastanza semplice :

  1. le risorse ottenute a titolo di finanziamento, dovrebbero essere impiegate per aumentare la produttività e la crescita economica del paese, in modo da contribuire positivamente alla sostenibilità nel tempo degli equilibri di finanza pubblica
  2. le risorse ottenute a titolo di trasferimento, andrebbero impiegate per colmare i GAP e le mancanze del nostro sistema economico sia con riferimento alla componente danneggiata dalle misure di contenimento per la recente pandemia, sia per quella storicamente erosa da una gestione miope della cosa pubblica

Come premessa generale mi preme sottolineare la diversità della mia posizione rispetto ai colleghi che suggeriscono investimenti in infrastrutture fisiche come autostrade, porti e altre misure qualificate come “sblocco cantieri”.

Il motivo del mio dissenso è presto detto: un paese in via di sviluppo ha bisogno di strade, reti elettriche e idriche e in genere la creazione di queste opere pubbliche contribuisce alla crescita economica e all’aumento del benessere dei cittadini.

L’Italia si trova in una posizione diversa ed è afflitta da problemi che non si risolvono costruendo ponti o potenziando le linee ferroviarie: la ricchezza delle nazioni moderne è oggi in larga parte costituita dal capitale umano dei cittadini che le abitano e dal grado di integrazione con la rete globale di relazioni commerciali che necessita di uno scambio costante di informazioni e dunque quella è a mio modesto avviso la direttrice lungo la quale è opportuno intervenire.

Se la ricchezza è dunque sempre più immateriale è altresì fondamentale che siano potenziate ed aggiornate le infrastrutture tecnologiche che consentono alle informazioni di circolare: una connessione ad internet sufficientemente veloce può consentire di portare il lavoro e le lezioni universitarie in ogni angolo del paese nel quale dal quale i nostri giovani sono spesso costretti a trasferirsi per studiare o per cercare un impiego.

Chiarito questo punto, come utilizzare nel dettaglio i fondi?

Un primo investimento dal rendimento garantito e veloce è la riqualificazione del personale e il ricollocamento geografico dei lavoratori finalizzato alla copertura dei posti di lavoro attualmente vacanti.

Come più volte evidenziato dal prof. Pietro Ichino (da ultimo nel libro l’intelligenza del lavoro) esistono immani giacimenti occupazionali che al momento non sono sfruttati perché non si trovano lavoratori con le competenze adeguate. Un modo virtuoso per agire in quella direzione è avviare una formula di collaborazione tra le imprese private che necessitano di questi profili, le istituzioni che possono utilmente contribuire alla selezione e alla formazione dei candidati (che si tratti di università o di società di consulenza) e lo stato che può coprire i costi della formazione e dell’eventuale trasferimento geografico.

Al fine di evitare conflitti d’interesse e abusi occorre un impegno concreto delle aziende ad assumere i candidati e la limitazione del ruolo del governo alla mera copertura dei costi di formazione e trasferimento. Considerato che le nazioni più ricche sono quelle capaci di spogliarsi del proprio nazionalismo, l’accesso a questi posti qualificati deve essere aperto anche a soggetti non residenti disponibili a trasferirsi in Italia per un periodo predeterminato.

Quest’ultimo punto potrebbe destare qualche perplessità, perché implica per lo stato italiano un investimento nella formazione di individui che non hanno nazionalità italiana: a ben vedere, nella misura in cui la formazione è finalizzata alla copertura di esigenze lavorative di imprese operanti sul territorio nazionale, si tratta di comunque il capitale umano del paese e, per una volta, di controbilanciare il trend di cervelli in uscita dal nostro paese.

Dunque la finalità prima è fare in modo che questi ruoli altamente qualificati che nel nostro paese non trovano copertura siano finalmente occupati. Un secondo livello potrebbe attuarsi abbassando l’asticella e contribuendo anche alla copertura di ruoli meno qualificati con incentivi al trasferimento delle risorse umane.

Se un calabrese emigra Londra a sue spese per fare il pizzaiolo (o resta a casa a prendere per sempre redditi di cittadinanza e altri sussidi) il nostro paese perde una risorsa che avrebbe potuto utilmente contribuire al PIL. Se grazie ad un incentivo al trasferimento sul territorio nazionale, si ferma a Milano o a Venezia per svolgere lo stesso ruolo vuol dire che contribuirà positivamente alle entrate dello stato centrale che a sua volta trasferisce risorse alla regione di origine in un circolo virtuoso. Onde evitare distorsioni il contributo al trasferimento deve essere temporaneo e subordinato alla presenza di un contratto di lavoro stipulato in anticipo.

Un ultimo più delicato profilo potrebbe riguardare la riqualificazione del personale che attualmente svolge attività poco produttive o addirittura ridondanti nelle grandi imprese e nella pubblica amministrazione e più in generale dei percorsi di formazione che consentano alle persone attualmente disoccupate di avere maggiori opportunità di trovare lavoro.

A questo proposito la criticità principale risiede nella valutazione della effettiva utilità dei percorsi formativi e la difficoltà “politica” di riconoscere che alcune mansioni sono al momento poco produttive o ridondanti. A tal proposito sarebbe opportuno un progetto preliminare che coinvolgesse i datori di lavoro, le imprese dedite alla selezione del personale e le università per individuare un percorso di “trasformazione” che sia orientato a concreti obiettivi di carattere occupazionale.

Al fine di rendere massimamente efficaci queste misure di riqualificazione e di incentivo alla mobilità del personale sarebbe opportuna l’introduzione di misure di semplificazione dei contratti di lavoro al fine di eliminare le complicazioni di carattere burocratico e taluni oneri fiscali e previdenziali che al momento impediscono la sottoscrizione di contratti di lavoro anche là dove esiste un accordo tra le parti sui termini della collaborazione.

Per il bene della prossima generazione di cittadini dell’unione europea (Next Generation Eu è il nome del programma) sarebbe opportuno che al di sotto di un certo compenso lordo annuo, fermi restanti i normali e ovvi vincoli in termini di sicurezza sul lavoro e di numero massimo di ore lavorate nell’unità di tempo, si lasciasse all’accordo delle parti la definizione di termini e modalità senza interferire nei “rapporti economici tra adulti consenzienti”.

Se l’investimento migliore è dato dalla formazione e riqualificazione, in che modo si possono impiegare i trasferimenti volti a reintegrare il tessuto economico? Una intervento semplice, efficace e di agevole implementazione riguarda l’offerta formativa sia scolastica che universitaria.

A questo proposito vorrei prendere le distanze dai colleghi che sembrano convinti che tutto si possa risolvere pagando di più i professori o assumendone di nuovi (chi volesse pensar male potrebbe intravedere forme di captatio benevolentiae, ma non è questa la sede opportuna). Non è mia intenzione avventurarmi lungo difficili considerazioni in merito alla valutazione dell’operato dei docenti o di una qualche misurazione a vario titolo del rapporto tra la quantità e qualità del lavoro attualmente svolto e i risultati conseguiti poiché si tratta di un terreno spinoso e denso di valutazioni di carattere politico.

Molto più modestamente, in un’ottica aziendale per la quale è necessario dar conto di come vengono impiegate le risorse e di quali risultati ci si prefigge, suggerisco la mera introduzione di test standardizzati da farsi obbligatoriamente all’inizio e al termine di ogni anno scolastico e i cui risultati saranno comunicati solo agli studenti, mentre sintesi statistiche per ogni istituto o università saranno rese pubbliche solo a livello aggregato. Aggiungerei altresì la possibilità di ripetere facoltativamente i test a scadenze infra-annuali prestabilite e aprirli anche alla popolazione in età non scolastica. La misura si completa con la fornitura di strumenti di autoapprendimento gratuitamente disponibili per tutta la popolazione.

Dunque chi termina il liceo X o l’università Y riceverà il tradizionale titolo di studio, ma anche una attestazione dei risultati dei test standardizzati per ogni anno frequentato e per ogni volta che si è richiesto lo svolgimento del test facoltativo. Lasciamo al mercato del lavoro stabilire quali titoli riterrà più utili per la selezione del personale. Lasciamo anche alla valutazione di ognuno constatare se per caso la scuola Z in media fornisce voti elevati a chi ha scarsi risultati nei test standardizzati o viceversa.

Parimenti, chi osservando un risultato insoddisfacente volesse migliorare la propria preparazione potrà farlo grazie agli strumenti di autoapprendimento gratuito e potrà a scadenze prestabilite ripetere il test ottenendo la certificazione del miglioramento ottenuto. Mi rendo conto che questo tipo di impostazione va contro la cultura paternalista oggi prevalente tuttavia questa soluzione ha il pregio di non intaccare alcun equilibrio politico, di concentrarsi su competenze obbiettivamente misurabili e su quanto queste ultime sono diffuse nella popolazione in età scolastica.

In perfetta coerenza con l’investimento precedente in formazione, i test saranno accessibili a tutta la popolazione e dunque chi lo vorrà potrà “recuperare gli anni perduti” o “rinfrescarsi la memoria” ottenendo una certificazione dello sforzo effettuato. A completamento di queste misure potrebbe tornare utile un ampiamento degli incentivi fiscali per le spese destinate alla formazione e all’istruzione.

Una parte dei fondi potrebbe inoltre essere destinata a finanziare periodi di studio all’estero per studenti meritevoli, esperienze formative in ambiti lavorativi per gli studenti universitari e degli ultimi anni delle superiori, ma anche per finanziare periodi di soggiorno in Italia di docenti provenienti da altri paesi. Onde evitare abusi, a questo proposito sarebbe opportuno individuare in via preliminare dei criteri di selezione per evitare che venga sussidiato lo studio o l’insegnamento di materie pseudoscientifiche o di dubbio contributo alla possibilità di trovare lavoro.

Per concludere, gentile presidente, si tratta di poche idee semplici e concrete volte a declinare in modo dettagliato la mia risposta di fondo al problema che la sua task force è chiamato a risolvere: il modo migliore di impiegare il denaro ricevuto a titolo di prestito o di trasferimento è di impiegarlo per fornire ai cittadini competenze e incentivi per contribuire attivamente alla creazione di valore all’interno del proprio sistema economico.

Cordialmente,

Massimo Famularo

PS di seguito un plausibile/probabile set di domande risposte

D: Ma veramente stiamo dicendo di non dare una lira alle imprese?

R: Le imprese sane potranno beneficiare di personale formato dallo stato e impiegare lavoratori che si trasferiscono grazie agli incentivi. Per imprese che non sono sane le complessità e i rischi legati alle formule di ristrutturazione e risanamento sono tali da rendere sconsigliabile l’impiego di fondi derivanti dal Recovery Fund.

D: Perché limitarsi ai test standardizzati e agli strumenti di autoapprendimento?

R: Per restare nell’ambito di quello che è obiettivamente misurabile ed evitare le discussioni politiche su qualità ed efficacia del lavoro svolto dai docenti. Se esiste un punto di riferimento standardizzato ciascuno può trarre le sue conclusioni.

D: Ma neanche un’autostrada o un ponticello piccolo piccolo?

R: Bisogna farsi una ragione del fatto che l’Italia è un paese sviluppato e che ci troviamo nel 2020. Ricette valide per l’800 o per i paesi arretrati difficilmente torneranno utili per noi, per tacere di questioni legate ai tempi di realizzazione delle opere pubbliche etc.

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