L’età pensionabile c’entra davvero qualcosa con l’occupazione giovanile?

scritto da il 18 Novembre 2020

È noto ormai: l’Italia non è un Paese per giovani. È costantemente alle prese con una popolazione sulla strada dell’invecchiamento e si classifica come il terzo peggior Paese in Europa per disoccupazione giovanile. Per combattere proprio quest’ultima si potrebbe essere portati a pensare che, mandando prima i lavoratori in pensione, si possano creare maggiori opportunità lavorative e nuovi posti sul mercato del lavoro per i giovani entranti. Ma esiste davvero questo legame tra età pensionabile e aumento dell’occupazione giovanile?

L’Italia oggi: popolazione e mercato del lavoro

Secondo il report dell’Istat di marzo 2020, è plausibile un aumento dell’aspettativa di età della popolazione. Entro il 2065 la vita media dovrebbe crescere fino a 86,1 anni per gli uomini e fino a 90,2 anni per le donne. Di conseguenza e in maniera parallela, dovrebbe verificarsi anche un aumento dell’età pensionabile: secondo le normative vigenti, salirebbe a 69 anni esatti nel 2043 fino a raggiungere la soglia dei 70 anni dal 2055.

Nel 2017 la spesa per pensioni è stata pari al 15,8% del Pil, collocandosi prima della Grecia (16,5%) e dopo la Francia (14,9%), ben al di sopra della media Ue del 12,5%. Sin dall’inizio degli anni 2000 i pensionati in Italia sono aumentati progressivamente fino al 2008, anno in cui è entrato in vigore l’innalzamento dell’età per il pensionamento della Riforma Maroni (da 57 a 60 anni).

Nel 2018 complessivamente i pensionati ammontavano a 16 milioni. Interessanti sono i dati riportati dall’Istat sul periodo intercorso tra il 2012 e il 2018, ovvero proprio in seguito all’entrata in vigore del Decreto Salva Italia, che nel 2011 fu emanato con l’obiettivo di conseguire un risparmio della spesa pubblica. In realtà, però, tra il 2012 e il 2018 risulta che il numero di pensionati sia calato del 3,6% ma, allo stesso tempo, la spesa complessiva per le pensioni è aumentata dell’8,5% e il reddito pensionistico medio annuo è cresciuto del 12,5%.

Se da un lato, si riscontra un aumento della spesa per le pensioni, per i giovani l’ingresso nel mondo del lavoro sembra essere sempre più difficile. Dalle statistiche emerge che la precarietà è una peculiarità dei giovani che si avvicinano al mercato del lavoro. Il contratto, infatti, si presenta nel 37,1% dei casi a tempo determinato e nel 23,4% come part-time. Dal punto di vista delle retribuzioni, peraltro, risultano soggetti maggiormente al fenomeno della “bassa paga” proprio i lavoratori più giovani, nonostante spesso risultino sovraistruiti rispetto a chi di regola svolge quel tipo di professione. L’Istat definisce il dipendente con bassa paga colui che percepisce una retribuzione oraria inferiore ai due terzi del valore mediano sul totale dei dipendenti. Secondo il rapporto sul Benessere equo e sostenibile, nel 2017 circa un lavoratore su dieci era coinvolto in questo fenomeno.

Innumerevoli teorie economiche e proposte di policy sono state elaborate negli anni per aiutare un Paese a migliorare il proprio tasso di occupazione giovanile. Attraverso questi studi, possiamo analizzare se esista o meno un collegamento fra la creazione di nuovi posti di lavoro e il numero di pensionati e cercare di trarre empiricamente delle conclusioni.

In teoria… “l’offerta di lavoro fissa”: se si lavora di meno, lavorano tutti 

Nell’Ottocento, gli economisti già cercavano delle risposte e così nacque la “Lump of labour theory”. Questa teoria economica si basa sull’assunzione che esista un’offerta di lavoro fissa distribuita fra tutta la popolazione attiva. Se ciò fosse vero, si potrebbero spalmare le ore di lavoro di una giornata su più lavoratori, così da far lavorare più persone e per meno ore. In quest’ottica, dunque, far uscire prima gli anziani dal mercato del lavoro creerebbe maggiori posti di lavoro per i giovani, dal momento che l’ammontare di lavoro disponibile è sempre fisso. Questa teoria, oltre a basarsi sull’assunzione della stabilità dell’offerta di lavoro, ipotizza anche che i lavoratori entranti nel mercato del lavoro e quelli prossimi al pensionamento siano perfettamente sostituibili.

Nella realtà, però, tutto ciò non si è mai realizzato: ogni individuo ha un bagaglio di esperienze e conoscenze differenziato e particolare. Ipotizzare, dunque, che tutti i lavoratori siano perfettamente sostituibili non appare per nulla credibile, come anche affermato dal recente report dell’Istat. Risulta, infatti, che gli occupati di età diversa non sono per nulla omogenei per esperienze, capacità e settore. Secondo le teorie economiche, nel breve periodo questo tipo di politica potrebbe essere anche efficace in un contesto di espansione economica con un mercato del lavoro rigido e la presenza di imprese poco innovative. Nel lungo periodo, al contrario, un aumento dei pensionati non è associato ad un aumento dell’occupazione giovanile, dato che viene meno una delle assunzioni fondamentali, ovvero che l’offerta di lavoro sia fissa.

In pratica… Quota 100 

Nel 2018 il governo Lega-5 Stelle ha proposto il superamento della Riforma Fornero con la cosiddetta “Quota 100”. La proposta consisteva nel permettere l’uscita dal mercato del lavoro quando la somma dell’età anagrafica del lavoratore e degli anni di contribuzione è almeno pari a cento.

Già al tempo molti si mostrarono scettici nei confronti di questa proposta, ma ultimamente un report di Bankitalia ha definitivamente smentito l’efficacia di tale scelta. Mandare in pensione in anticipo non implica direttamente la creazione di nuovi posti di lavoro, anzi sembra quasi che abbia un effetto contrario. Bankitalia sostiene, infatti, che l’innalzamento dei requisiti di accesso alla pensione, in seguito alla riforma Fornero, sia stato un intervento necessario al fine di sostenere l’offerta di lavoro e difendere la sostenibilità del sistema. All’interno delle aziende, infatti, i lavoratori giovani e anziani non sono sostituibili ma al contrario, complementari e dunque tale caratteristica costituirebbe un valore aggiunto per il datore di lavoro.

Una proposta alternativa: la staffetta generazionale 

Potrebbe, però, in realtà sussistere anche una correlazione positiva fra il numero dei lavoratori mandati in pensione e nuovi posti di lavoro per i giovani entranti. Nel 2013, l’allora ministro col governo Letta, Giovannini, studiava il meccanismo della “staffetta generazionale” per favorire l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani inoccupati. Il mercato del lavoro avrebbe bisogno di personale giovane, efficiente e qualificato, ma miglioramenti dell’offerta di lavoro per i giovani sarebbero ottenibili anche attraverso incentivi fiscali e sburocratizzazione delle assunzioni. Per favorire questo ricambio generazionale si chiedeva, dunque, ai lavoratori in età avanzata di fare un passo indietro e andare in pensione, rinunciando ad una parte della propria retribuzione. In compenso, però, si avrebbe avuto un nuovo posto di lavoro e si sarebbero create nuove opportunità per i più giovani. Un piccolo sacrificio, questo, che andrebbe ancora di più a classificare l’attuale sistema pensionistico di tipo contributivo come un vero e proprio “patto fra generazioni”, fatto sulla base di difficili compromessi e ingenti sacrifici da entrambe le parti.

Il pensionamento anticipato è stata una proposta frequentemente promossa per mantenere la disoccupazione bassa negli anni clou del boom economico e dell’industrializzazione del secolo scorso. Questo tipo di policy è tornato alla ribalta negli ultimi anni.

Secondo uno studio, le “Activation policies”, finalizzate a spronare i disoccupati a cercare lavoro, sono in verità le uniche realmente efficaci. Negli scorsi anni sono state implementate per rendere i giovani sempre più indipendenti dai sussidi statali e possono aumentare la possibilità di ottenere un’occupazione remunerativa. Il vero obiettivo, inoltre, dei sistemi previdenziali dovrebbe essere quello di garantire che i giovani restino nella forza lavoro.

Dal momento che non si può osservare una correlazione definitiva in grado di spiegare la relazione che lega il numero di pensionati e la possibilità di nuovi posti di lavoro per i giovani, bisogna puntare proprio sull’integrazione dei nuovi entranti nel sistema e facilitare il passaggio dall’istruzione al mercato del lavoro, consentendo anche l’ottenimento di contratti stabili e di un compenso adeguato.

Testo a cura di Sveva Manfredi

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