Come mentono i politici: meccanismi e formule dell’inganno

scritto da il 06 Dicembre 2022

“Gl’italiani capiscono sempre di più che stiamo facendo un buon lavoro”: una frase, questa, simile a tante altre che abbiamo sentito pronunciare instancabilmente da chi della politica ha fatto un mestiere. In apparenza, è innocua e irrilevante, non costringe l’ascoltatore a scervellarsi per analizzarne il contenuto. Nella sostanza, però, le cose stanno diversamente. Infatti, a ben vedere, non è molto difficile scorgervi un espediente che il parlante utilizza per rendere immediato ed efficace il proprio scopo informativo: la presupposizione, ovverosia un elemento che non appartiene all’enunciato e che, di conseguenza, non possiamo trovare nel materiale linguistico utilizzato, ma la cui esistenza e la cui verità sono date per scontate.

Il mittente, in pratica, nell’informare il ricevente circa la consapevolezza degl’italiani, assume per vero non solo che gl’italiani capiscono, ma anche e soprattutto che capivano già, pure prima. Nel caso in specie, l’espediente è racchiuso nell’uso della locuzione avverbiale “sempre di più”. Se qualcosa ‘aumenta’, allora esisteva già. La locuzione avverbiale attiva una sorta di processo di riconoscimento semantico implicito e dà compimento allo scopo informativo.

Tra le altre cose, non si fa fatica a intuire che il soggetto della frase, “gl’italiani”, rappresenta una categoria troppo ampia perché se ne possa valutare la correttezza; la qual cosa ci fa comprendere che non importa quanto sia valido l’enunciato: giusto o sbagliato che sia, esiste una verità del discorso e del locutore. Se ne può scoprire la produttività ricorrendo alla forma negativa: “Non è vero che gl’italiani capiscono sempre di più”. Qualora il ricevente fosse un rivale e volesse contestare il messaggio, egli riuscirebbe, molto probabilmente, a respingere il summenzionato aumento, ma resterebbe valido che “gl’italiani capiscono”: non più di prima, ma capiscono; la negazione annullerebbe solo l’incremento.

Con qualche altro esempio, saremo sicuramente in grado di illustrare meglio il modo in cui politici e, talora, economisti divagano più o meno elegantemente alla ricerca di consenso.

“Gl’italiani hanno smesso di accendere i termosifoni”. La dichiarazione, per quanto sia un banale esempio, può risultare inquietante, ma i tempi, si sa, non sono affatto felici in tal senso. La presupposizione, in questo caso, è assai chiara: prima li accendevano. Insomma, alcuni verbi e alcune locuzioni, ma non solo verbi e locuzioni, possono fungere da attivatori presupposizionali, possono cioè determinare delle verità implicite tali che il destinatario sarà tendenzialmente indotto ad accordare fiducia al mittente. Dire “Compra il pane!” non equivale a dire “Apri la porta!”. Posso comprare del pane, pur avendone un po’ a casa, ma non posso aprire una porta aperta.

Se in un messaggio pubblicitario scriviamo “per continuare a stupirvi”, ciò vuol dire implicitamente “finora vi abbiamo stupiti”. Il verbo continuare reca in sé, in modo inequivocabile, una presupposizione. Ciò che viene asserito, in altri termini, è retto da ciò che viene presupposto. Bisogna fare un piccolo sforzo per riorganizzare la comune concezione degli enunciati o – semplificando il linguaggio – del messaggio per ridefinire la loro struttura informativa, entro la quale, grosso modo e per lo più, troviamo sempre uno scopo informativo (rema), delle condizioni di esistenza (o presupposizioni pragmatiche: AUSTIN, J., 1962; FILLMORE, C. J., 1971) un valore implicito (presupposizione) e uno esplicito (asserto). In linguistica, come si apprende dall’uso delle note tra parentesi tonde, ricorreremmo ad altri termini.

Questo, tuttavia, non è un articolo di linguistica, ma un contributo che trae origine da essa per offrire al lettore un quadro limpido di ciò che dà significato alle frasi di politica ed economia. A tal proposito, infatti, ci proponiamo di aggiungere alcune considerazioni sulle massime della cooperazione del filosofo inglese Herbert Paul Grice. Lo facciamo subito perché ci è molto utile comprendere in che modo l’ascoltatore sia tendenzialmente disposto ad accordare fiducia al mittente.

Grice ritiene che la cooperazione linguistica sia basata su quattro massime: quantità, qualità, relazione e modo. Contribuendo al discorso in termini di quantità, non dobbiamo dire né troppo né troppo poco. Se vado al bar a chiedere un caffè, non dico al barman “un caffè perché non lo bevo da due anni a causa di un trauma riemerso; quando ero piccolo, mi sono scottato et cetera”. Secondo la massima della qualità, abbiamo il dovere di essere sinceri; e, in questo caso, un esempio sarebbe superfluo.

È molto interessante documentare, invece, la massima della relazione. Ciò che noi diciamo deve avere un’adeguata attinenza con ciò che dice il nostro interlocutore. Qualcuno potrebbe chiedersi perché mettiamo tanta enfasi nel sottolineare questa massima. La risposta è semplice. Durante i dibattiti politici, in specie durante quelli televisivi, alcuni politici sono dei veri e propri campioni di violazione della massima griceana della qualità. Se il tema è quello delle pensioni, io non devo parlare di migranti e viceversa. Eppure, questo accade molto più spesso di quanto si immagini; anzi, su questo si basano pure molte campagne elettorali e grazie a questo, purtroppo, si vincono pure. Se, da ultimo, vogliamo contribuire pure in termini di modo, dobbiamo evitare a tutti i costi l’ambiguità. In teoria, dunque, in conformità all’ultima massima, una frase come la seguente sarebbe un oltraggio all’intelligenza conversazionale:

“Tutti deplorano che quell’uomo sia pericoloso”.

Sarebbe da evitare, sebbene sia una tecnica di linciaggio molto in voga. Qui, noi ne abbiamo adottata una forma parossistica, per così dire, ma non saranno sfuggiti al lettore metodo e meccanismo coi quali spesso si mira a distruggere l’immagine pubblica di qualcuno, un po’ come quando ‘si semina zizzania’. L’ambiguità della frase in questione è tanto evidente quanto, purtroppo, determinante.

Infatti, secondo Grice, ciascuno di noi è convinto a priori che il locutore non violi le massime: partiamo tutti, cioè, da una precondizione cooperativa che ci impedisce, almeno di primo acchito, di individuare imposture e raggiri d’ogni genere e specie. Il predicato “deplorare”, in linguistica, è definito fattivo e, in quanto tale, reca in sé una presupposizione di verità, produce, per l’appunto, un fatto: se tutti deplorano (…), allora è vero che (…).

Nell’esempio col predicato fattivo, in particolare, ci si serve di una persona interna indefinita (tutti) di cui si proietta la verità facendosene semplicemente latori. Qualcosa di simile potrebbe succedere con “Agl’italiani non interessa che (…)”. Come si può notare, questi predicati hanno un particolare potere sul corso della conversazione, che consiste nel rendere effettivo il complemento frasale: il loro complemento è il fatto stesso, cioè il complemento frasale, che, in questa struttura, è verità di fatto e verità del discorso.

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Immagine di Michal Matlon per Unsplash

A questo punto, ossia una volta acquisiti metodo e meccanismi essenziali, proviamo ad ampliare un po’ il ragionamento. Leggiamo anzitutto il dialogo che segue!

A1: “Lei cos’ha fatto negli ultimi giorni?”
B: “Mi sono occupato dei migranti”
A2: “Allora, gl’italiani proprio non le interessano”

La contesa si svolge interamente nel passaggio da B ad A2. B dà ad A1 un’informazione nuova in risposta alla domanda, ma A2, com’è evidente, se ne disinteressa. A ben vedere, l’elemento nuovo di B, che dovrebbe costituire il dato per A2, è rappresentato da “migranti”. In pratica, in A2 s’è attivato, giocoforza, un processo psicolinguistico, mediante la MBT (Memoria a Breve Termine), che dovrebbe spostare il discorso sui “migranti”, tuttavia egli lo ignora, introducendo un altro elemento nuovo e che non ha alcuna pertinenza col processo stesso: “gl’italiani non le interessano”. Per A2, infatti, “migranti” dovrebbe costituire, adesso, il dato. Ma così non è.

Viene dunque violata la massima della qualità, ma, a questo punto, B dev’essere in grado di rimediare riportando il discorso sul proprio nuovo (non è facilissimo, a seconda del contesto). A2 non fa altro che tentare di trasformare in dato qualcosa che è nuovo (“gl’italiani non le interessano”). Questo non implica che non si possa introdurre ‘informazione nuova’ nel discorso o che, diversamente, sia disfunzionale riformulare qualcosa. È bene precisare, a scanso di equivoci, che lo stesso ragionamento si sarebbe potuto fare, se si fossero invertiti gli enunciati di B e A2.

A1: “Lei cos’ha fatto negli ultimi giorni?”
B: “Mi sono occupato degli italiani”
A2: “Allora, i migranti non le interessano”

Allo scopo di permettere al lettore una migliore comprensione del fenomeno appena trattato, diamo per lo meno una definizione basilare di dato e nuovo. Un’informazione è data, se appartiene alle conoscenze comuni a mittente e ricevente; viceversa, è nuova. Perché si abbia un dato è necessario, dunque, avere anche un preciso contesto.

A: “Hai intenzione di studiare?”
B: “Studio (dato), se mi dai il libro (nuovo)”

Le tecniche, gli espedienti e le forme con cui i politici si raccontano non si esauriscono certo in queste poche battute. D’altronde, la lingua, in profondità, è molto più complessa di quanto, di solito, siamo disposti ad ammettere. In genere, ci esprimiamo grazie a formule rassicuranti e riposanti, per così dire, e non sempre otteniamo il risultato illocutivo che crediamo d’avere ottenuto. Forse, l’intero sistema comunicativo si regge proprio grazie al fatto che una buona parte dello scambio passa per incomprensione.

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francescomercadante.it

Se vuoi fare un viaggio nel lessico economico, leggi “Le parole dell’economia”

 

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