Le conseguenze di Brexit: a chi costerà di più la nebbia nel Canale?

scritto da il 17 Marzo 2016

Pubblichiamo un post di Silvia Merler e Pia Hüttl, entrambe affiliate fellow del think tank Bruegel, specializzato in politica economica europea

“Nebbia nel Canale della Manica: il Continente è isolato”. Così titolava un noto giornale britannico negli anni Cinquanta, e questo sentimento è diventato recentemente un simbolo dell’atteggiamento del Regno Unito nei confronti dell’Unione Europea. L’idea di fondo è che sia il “continente” ad avere bisogno del Regno Unito, piuttosto che il contrario. Questa convinzione potrebbe essere messa alla prova se la maggioranza dei cittadini britannici votassero in giugno a favore dell’uscita del proprio Paese dall’UE. Qui guardiamo alle possibili implicazioni di una Brexit attraverso due importanti dimensioni dell’integrazione Europea: il commercio internazionale e l’integrazione dei mercati finanziari.

Commercio internazionale

Nel 2014, il valore totale del commercio in beni del Regno Unito è stato di 900 miliardi di euro, con un deficit commerciale di 139.5 miliardi. Il Regno Unito importa principalmente dall’Unione Europea e esporta principalmente verso Paesi extra-UE. Otto dei primi dieci partner commerciali del Regno Unito sono Paesi membri dell’UE. Il primo partner commerciale del Regno Unito nel 2014 è stato la Germania, seguita da Stati Uniti, Paesi Bassi, Cina e Francia.

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La politica del commercio internazionale per gli Stati membri è centralizzata a livello UE. Al momento, l’Unione Europea ha accordi di commercio preferenziali (PTA: Preferential Trade Agreements) con 52 Paesi, e altri 72 accordi sono in corso di negoziazione. Se il Regno Unito uscisse dall’UE, tutti gli accordi commerciali di cui il Paese è automaticamente parte in quanto Stato membro dovrebbero essere rinegoziati bilateralmente. In totale, si tratterebbe di 124 negoziazioni più 1 ulteriore accordo per definire la posizione del Regno Unito come partner commerciale dell’UE, di cui a quel punto non farebbe più parte. Attualmente, circa l’85% del commercio britannico è coperto da accordi preferenziali che dovrebbero essere rinegoziati (figura sotto), quindi il problema è tutt’altro che secondario.

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Rinegoziare così tanti accordi richiederà tempo e benché i sostenitori di Brexit sembrino convinti che il Regno Unito potrà negoziare con più flessibilità una volta uscito dell’UE, è probabile che il suo peso negoziale sarà significativamente ridotto rispetto a quello di un blocco economico così grande come l’UE. Inoltre, finché non sarà negoziato un accordo commerciale con l’UE, l’export britannico sarà soggetto alle tariffe che l’UE applica a Paesi terzi con cui non ha un accordo. Sulla base della composizione delle esportazioni britanniche del 2014, la tariffa media sarebbe del 3,2%, ma l’impatto sarebbe molto differenziato tra i singoli settori.

Integrazione dei mercati finanziari

Londra è senza dubbio uno dei principali centri finanziari mondiali e vanta un ruolo primario in diversi settori di mercato. Il Regno Unito inoltre esporta servizi finanziari in tutto il mondo, e soprattutto fuori dall’UE. Le principali banche britanniche sono estremamente internazionalizzate. HSBC per esempio detiene il 58% dei propri attivi in Paesi extra-Europei e solo il 9% in Europa. L’unica banca britannica che pare significativamente legata al mercato Europeo è Barclays, con 22% degli attivi nell’area euro, ma recentemente anche Barclays ha iniziato a disinvestire da Italia, Spagna e Portogallo. Inoltre, le principali banche svizzere e americane si servono degli uffici londinesi come base per le operazioni in Europa, rendendo la City un vero polo globale. Ma l’attrattività di Londra come ingresso al mercato Europeo è strettamente legata alla partecipazione del Regno Unito nell’UE: attualmente qualsiasi impresa che abbia il suo quartier generale nel Regno Unito può richiedere alle autorità britanniche un “passaporto finanziario” che garantisce l’accesso all’intero mercato UE.

Un altro importante ambito di integrazione finanziaria è quello degli (FDI). In questo settore, l’UE è il primo partner del Regno Unito, con un volume di investimenti diretti di circa 500 miliardi di sterline nel 2014. I principali settori di investimento per le imprese del continente nel Regno Unito sono quelli di commercio all’ingrosso (83.2 miliardi), minerario (67.5 miliardi), tecnologie informatiche (48.7 miliardi) e servizi finanziari (47.5 miliardi) in 2014.

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Questi pochi dati dovrebbero essere sufficienti a mostrare che il legame commerciale e finanziario tra Regno Unito e UE è stretto. Predire gli effetti di un’eventuale Brexit è molto difficile per via del fattore che più di tutti potrebbe pesare, ovvero l’incertezza riguardo alla forma delle relazioni future tra i due contendenti e riguardo al tempo necessario per instaurare queste relazioni. Le imprese britanniche sembrano realizzare questo molto chiaramente.

In un sondaggio condotto nel 2013 da YouGov e CBI, il 65% risponde che l’uscita del Regno Unito dall’UE avrebbe un impatto negativo o molto negativo sull’accesso del Regno Unito al mercato UE e, forse più sorprendentemente, il 42% sembra pensare che anche l’accesso ai mercati non-UE sarebbe negativamente colpito. Il 75% degli imprenditori intervistati si aspetta che l’uscita del Regno Unito dall’UE avrebbe un impatto negativo sul livello di investimenti diretti esteri. L’accesso al sistema di passaporto unico finanziario e l’applicazione della regolamentazione unica europea del settore finanziario (il cosiddetto single rule book) potrebbero dover essere rinegoziati, cosa che colpirebbe negativamente soprattutto (ma non solo) gli investimenti diretti esteri.

L’effetto complessivo dell’uscita del Regno Unito dall’UE è molto incerto, e dipende in particolare da quale sarà il modello adottato per definire le relazioni del paese con l’Unione. Ma anche i pochi dati discussi qui suggeriscono che le conseguenze negative sarebbero tutt’altro che insignificanti.

Twitter @SMerler @PiaHuettl