Ilva e Alitalia: statalisti, liberisti o, una volta tanto, aziendalisti?

scritto da il 16 Novembre 2019

L’autore di questo post è Marco Gallone, investment manager attivo nel campo della finanza e delle valutazioni d’impresa dal 1989 –

Non se ne può più di sentir parlare di Ilva e di Alitalia, quanto meno nel modo in cui se ne sta parlando; per slogan, statalisti o liberisti che siano. Dicono in sostanza gli statalisti: dobbiamo statalizzare (o ristatalizzare) llva e Alitalia perché sono due aziende strategiche per il Paese. Nessuna grande industria al mondo può fare a meno dell’acciaio nazionale! Analogamente, un settore così determinante per la nostra crescita come quello turistico, non può essere privato della sua compagnia di bandiera!

Ribattono i liberisti: un’azienda pubblica che perde soldi va chiusa come si chiuderebbe un’azienda privata, altrimenti si falsano le regole della concorrenza e si finisce come al solito per far pagare il conto ai contribuenti. Guardate cosa succede negli altri Paesi: nel 2001, la Svizzera ha lasciato fallire la Swiss Air, un’autentica gloria nazionale, e la nuova compagnia – sorta sulle ceneri della prima per opera della Lufthansa – è tornata a conseguire lauti profitti. La British Steel, dal maggio scorso in bancarotta, ha attualmente in corso una trattativa per la sua acquisizione da parte di un gruppo cinese, senza però alcuna garanzia per la forza lavoro impiegata.

Ascoltando queste ed altre argomentazioni di tenore analogo, ci verrebbe da dar ragione o torto ora agli uni e ora agli altri.

Da un lato, infatti, è paradossale che l’Italia, seconda manifattura d’Europa – alla quale l’acciaio serve come l’aria che respiriamo – rischi di dover chiudere il maggior complesso industriale per la lavorazione dell’acciaio a livello europeo. Ed è altrettanto paradossale che il “Paese più bello del mondo”, dove tutti vorrebbero venire almeno una volta nella vita, lasci fallire la sua compagnia di bandiera che, opportunamente coordinata nel sistema dei trasporti interni e internazionali, potrebbe senz’altro ricoprire un ruolo fondamentale nella valorizzazione del potenziale turistico del nostro Paese.

Dall’altro lato, anche quando riflettiamo sull’argomento più delicato, quello occupazionale, viene spontaneo domandarsi: ma scusate tanto, se fallisce una qualsiasi azienda di dimensioni medio-piccole, chi si fa carico dei suoi dipendenti? Prendiamo, ad esempio, un settore rilevante del nostro made in Italy come l’agroalimentare: negli ultimi 3 anni, sono 320.000 le aziende agricole che hanno chiuso i battenti. Ebbene, quante Ilva e Alitalia significavano in termini di persone che hanno perso il posto di lavoro? Qualcuno se n’è fatto carico? Qualcun altro per caso ha proposto di statalizzarle?

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Come si vede, non se ne esce se ragioniamo per slogan. E non se esce perché entrambi gli approcci – quello statalista e quello liberista – sono sbagliati, in quanto non affrontano il problema alla radice; problema che non è certamente quello di chi deve mettere i soldi, se lo Stato o i privati. Prova ne è che Ilva e Alitalia hanno perso una barca di soldi SEMPRE E COMUNQUE: come aziende pubbliche, semipubbliche, private, semiprivate e sono riuscite ad accumulare perdite record pure commissariate! Tutti noi ricordiamo che, dopo i pomposi proclami iniziali sul rilancio di Alitalia, Etihad – la compagnia araba che ne aveva acquisito il 49% – se n’è andata a gambe levate! Più o meno come sta facendo adesso ArcelorMittal, grazie al …grandioso assist del nostro Governo!

Il problema vero da affrontare è stabilire quali siano i motivi che non consentono a una data impresa di superare la crisi che l’ha colpita, quando e a quali condizioni tale crisi può essere superata e quando invece non resta altra strada che cessarne l’attività. Per far questo, non bisogna essere né statalisti né liberisti, ma – se proprio ci piace assegnare un’etichetta – occorrerebbe essere, una volta tanto, aziendalisti!

Ma cosa significa fare gli aziendalisti? Significa fare quello che finora non ha fatto la politica, quello che non ascoltiamo nei dibattiti televisivi o quello che non leggiamo su gran parte dei giornali. E cioè significa fare un’analisi di prodotti, di mercati, di tecnologia; significa capire se la crisi è riconducibile a un ristagno o a una flessione della domanda dei beni e servizi prodotti oppure ai costi troppo elevati di questa produzione; significa valutare in che termini e a che prezzo effettuare l’indilazionabile riconversione produttiva, ricercare nuovi mercati di sbocco, ecc.

Prendiamo il caso dell’ex Ilva. Quando abbiamo un Paese come la Cina che – facendo tra l’altro dumping di tutti i tipi, compreso quello ambientale – realizza la metà dell’intera produzione mondiale, 928 milioni di tonnellate contro gli 1,8 miliardi di produzione mondiale nel 2018, mentre noi riusciamo a coprirne solo una piccolissima quota (24 milioni), non sarebbe forse il caso di domandarsi se, per riuscire a sopravvivere in un settore in cui i costi fissi ti strangolano obbligandoti ad avere dimensioni minime sempre più cospicue, non occorra ultra-specializzarsi in prodotti di nicchia? E ciò tenuto anche conto che siamo in un contesto in cui la domanda mondiale d’acciaio è in calo (- 10% lo scorso anno), per via del rallentamento della crescita economica.

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Allo stesso modo su Alitalia: ci vogliamo chiedere come può continuare a stare sul mercato senza perdere altri quattrini? Deve comprare nuovi aerei? Nuovi slot? Fare accordi con altri vettori e tour operator internazionali per attrarre più passeggeri anche dalle tratte a lungo raggio? O, al contrario, deve ridimensionarsi concentrandosi solo sulle rotte domestiche o su quelle di feederaggio? Deve trasformarsi in una compagnia low-cost o diventare un carrier di lusso?

Ecco, queste sono le domande alle quali vorremmo sentire e trovare una risposta e rispetto alle quali ci piacerebbe ascoltare anche il parere del nostro mondo accademico, drammaticamente silente, a dispetto della nostra illustre tradizione di patria della ragioneria e, quindi, della moderna economia aziendale.

Il succo di quanto sopra esposto mi pare dunque evidente: bisogna evitare posizioni preconcette: sia quella di chi sostiene che ci si deve affidare unicamente agli “automatismi di mercato” (e quindi lasciar fallire anche una grande azienda, pubblica o privata che sia), sia quella di chi sostiene esattamente il contrario, e cioè che si rende sempre e comunque necessario un intervento dello stato, costi quel che costi.

Ed appare altrettanto evidente la differenza di valutazione tra la logica liberista e quella statalista: per la prima sarà conveniente risanare l’impresa in crisi quando l’investimento necessario allo scopo potrà essere adeguatamente remunerato; o almeno, come condizione minima, quando il risanamento consenta di recuperare più di quanto sarebbe possibile mediante la liquidazione o determini perdite minori rispetto all’ipotesi di liquidazione.

Per la logica statalista invece, e qui sta la differenza macroscopica che i liberisti purosangue non dovrebbero ignorare, il limite di convenienza che può giustificare la statalizzazione di un’azienda può andare ben oltre. In particolare, esso è rappresentato dall’entità degli oneri di cui lo Stato – che, come sappiamo, riscuote tributi derivanti dall’attività delle imprese, sostiene i costi per la protezione sociale, si trova a fronteggiare gli effetti che la chiusura di un’azienda provoca su tutto il suo “indotto”, ecc. – dovrebbe comunque farsi carico laddove l’azienda non venisse risanata. In altre parole, lo Stato potrà giudicare conveniente intervenire nel risanamento di un’impresa anche quando esso comporti un costo, purché non superi gli oneri che in ogni caso ricadrebbero nella sfera pubblica.

L’intervento diretto dei Pubblici Poteri nel salvataggio di un’impresa, però, deve essere l’estrema ratio, anche perché il più delle volte incapperebbe nei divieti imposti dalla normativa europea sui cosiddetti “aiuti di Stato”. Prima di inoltrarsi su questa strada, di fronte a un’impresa in crisi che i privati non hanno convenienza a risanare, lo Stato dovrebbe chiedersi:

a) se c’è qualcosa che non funziona nel quadro istituzionale di riferimento e che renda estremamente difficile a determinate imprese di ritrovare condizioni di economicità ed efficienza, fronteggiare la concorrenza internazionale, adattarsi al mutato andamento della congiuntura, ecc.;

b) quali azioni porre in essere per modificare il suddetto quadro istituzionale, ad esempio promuovendo un piano di riconversione produttiva che coinvolga tutte le imprese del settore interessato, concedendo incentivi fiscali che rimuovano i limiti che impedivano ad altre imprese private di intervenire, rilasciando apposite garanzie sui finanziamenti, ecc.

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Sapete come si chiama tutto questo? Si chiama “politica industriale”, quella cosa che lo Stato, in Italia, non fa più da decenni, a differenza di altri Paesi come Francia e Germania ad esempio e che, soprattutto per settori-base come quello dell’acciaio e dei trasporti (per ricondurci ai due casi dai quali abbiamo preso spunto), andrebbe sviluppata a livello non solo nazionale ma europeo.

Come si vede, l’argomento è complesso e non può essere compiutamente trattato in un articolo come questo, ma nemmeno affrontato con la retorica statalista e quella pro libero mercato che ci ammorbano ormai da troppi decenni!

Twitter @MarcoGallone_