Clima, la sfida ambientale è troppo complessa per l’umanità?

scritto da il 16 Novembre 2021

Post di Antonino Iero, autore del romanzo di fantapolitica “Forza, Italia!” (Edizioni Zeroincondotta, 2002) e di un saggio sulla crisi del 2007 – 08 “Il messaggio della grande crisi dei mutui” (Arianna Editrice, 2010). È stato responsabile del Servizio Studi e Ricerche Economiche e Finanziarie di Unipol. Attualmente si occupa di questioni economiche e ambientali –

Le valutazioni rispetto agli esiti della COP26 sono sostanzialmente di due tipi: da un lato, la maggior parte dei commentatori manifesta una profonda delusione, ritenendo si sia assistito ancora una volta ad uno sterile confronto tra egoismi nazionali che hanno portato a generici impegni non vincolanti e non verificabili; dall’altro, non mancano osservatori che vedono in questa conferenza un passo in avanti verso interventi efficaci per contrastare il cambiamento climatico. Non è fuori luogo specificare che molti fra quelli che giudicano positivamente gli esiti della COP26 lo facciano alla luce di aspettative di risultati della conferenza ancora peggiori rispetto a quelli effettivamente conseguiti.

La prima considerazione che mi viene in mente, a proposito di queste conferenze internazionali sul clima, è che, comunque, ormai si sta agendo fuori tempo massimo. L’umanità non è più in grado di fermare il processo di modifica climatica indotto dall’intenso uso di combustibili fossili. Significativamente, il sottotitolo dell’edizione originale di un libro che analizza a fondo la questione climatica recita: “Perché la battaglia contro il cambiamento climatico è fallita” (1). Dietro tale disastro vi sono diverse ragioni che non è possibile affrontare qui: dalla presenza di potentati economici che conseguono enormi profitti dall’uso di carbone, petrolio e gas, fino alla oggettiva difficoltà cognitiva di collegare i nostri comportamenti individuali ai loro effetti sull’ambiente. Purtroppo, a causa dell’inazione indotta da tutti questi motivi, secondo molti esperti ormai non ci resta che cercare di mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici già in atto e trovare forme di adattamento a una situazione nuova e generalmente più sfavorevole rispetto a quella cui l’umanità era abituata.

Come negli incontri passati, anche la conferenza tenutasi a Glasgow ha visto un poco produttivo confronto tra posizioni diverse e, talvolta, inconciliabili. Con i Paesi economicamente avanzati più propensi a prendere impegni (il loro effettivo rispetto è poi un’altra cosa), le nazioni di recente industrializzazione protese a evitare qualsiasi concreto obbligo di riduzione delle loro emissioni e gli Stati più vulnerabili (Isole Marshall, Maldive e altri) che vorrebbero interventi immediati ed efficaci, spesso indispensabili per la loro stessa sopravvivenza.

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Una novità interessante che vale la pena di sottolineare è la proposta di piantare mille miliardi di alberi da qui al 2030. Da una parte, qualche perplessità su tale numero non può non emergere: qualcuno ha già calcolato che, per cogliere tale obiettivo, occorrerebbe mettere a dimora circa 300 milioni di alberi al giorno, tutti i giorni dei prossimi nove anni. Non riesco neanche ad immaginare se sia fattibile. Dall’altra, però, questo annuncio ha almeno il merito concettuale di far capire la necessità di allargare gli interventi di contrasto al cambiamento climatico anche alla cattura della CO2 già presente nell’atmosfera. Uno degli errori logici in cui numerose persone cadono è quello di pensare ad un legame diretto tra emissioni di CO2 e riscaldamento dell’atmosfera. Ciò induce a credere che sia sufficiente ridurre le emissioni per ottenere un pressoché immediato effetto benefico sul clima. In realtà, quello che conta nella dinamica climatica è il cumulo di anidride carbonica presente nell’aria. Aspetto tanto più rilevante alla luce dell’elevata persistenza di tale gas nell’atmosfera (2) . Ragionando per assurdo, anche se l’umanità cessasse immediatamente di emettere gas serra, gli effetti delle emissioni passate continuerebbero a manifestarsi sul clima ancora per lungo tempo. Da qui quindi l’impellenza di pensare alla cattura del carbonio già immesso in circolo nei decenni (secoli) precedenti. Con l’avvertenza che tale azione, ovviamente, non rappresenti un alibi per non intervenire sulle nuove emissioni: uno degli aspetti caratteristici della questione climatica è che non c’è un intervento sufficiente a risolverla, ma solo un insieme di interventi tutti necessari.

Nel corso della conferenza, abbiamo visto posizioni contraddittorie come quella degli Stati Uniti, il cui atteggiamento cambia in funzione dell’amministrazione in carica e delle lobby che la sorreggono. Senza contare il fatto che qualunque impegno preso dall’esecutivo USA è poi comunque vincolato alla ratifica, tutt’altro che scontata, da parte del Congresso. L’Europa sembrerebbe proporsi come modello di impegno ambientalista. Ma la sua virtù fatica a reggere un’analisi più approfondita, se solo si considera la massiccia importazione di merci e semilavorati prodotti nei Paesi a basso costo del lavoro: la delocalizzazione verso quei Paesi delle produzioni più inquinanti è difficilmente classificabile come “merito” ambientale. Più in generale, le nazioni più sviluppate hanno un deficit di credibilità ecologica determinato da un livello dei consumi non compatibile con la necessità di allentare la pressione sugli ecosistemi del pianeta.

Difficile esimersi però dall’esprimere un commento sulle posizioni di alcuni leader dei Paesi di recente industrializzazione (Cina e India in primis). Il presidente cinese Xi Jinping, come noto, ha semplicemente ritenuto inopportuno recarsi alla COP26, limitandosi a firmare un accordo, in verità piuttosto fumoso, con gli Stati Uniti annunciato durante gli ultimi giorni della conferenza. Il primo ministro indiano, invece, si è presentato a Glasgow per dichiarare che il suo Paese intende farsi paladino di una sorta di “giustizia climatica”. Il suo ragionamento parte dalla considerazione (corretta, si veda il grafico a fianco) che una buona parte della CO2 oggi presente nell’atmosfera è stata generata dalle passate emissioni delle nazioni oggi più sviluppate (in pratica, Stati Uniti ed Europa).

Sulla base di ciò, Narendra Modi ritiene che l’India abbia il diritto di aumentare il volume del suo inquinamento, giustificandolo con il nobile scopo di migliorare la qualità della vita dei suoi cittadini. Ha rifiutato qualsiasi serio confronto limitandosi ad affermare: noi (!) siamo poveri e abbiamo il diritto di inquinare. Mi sembra che ben pochi abbiano criticato questa posizione. È probabile che, come spesso accade con le questioni che riguardano i Paesi in via di sviluppo, entri in gioco una sorta di senso di colpa nutrito da molti europei. Questo fattore non solo impedisce di replicare a dichiarazioni come quelle rese dal signor Modi, ma, più alla radice, condiziona la possibilità di ragionare in termini pragmatici, come sarebbe invece il caso di fare a fronte di un grave pericolo. Pochi oserebbero negare che gli sconvolgimenti ambientali determinati dal cambiamento climatico rappresentano un grave pericolo per la vita degli esseri umani su questo pianeta.

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In primo luogo, una considerazione di carattere generale: poiché siamo tutti sulla stessa barca (in questo caso sullo stesso pianeta), nel momento in cui essa rischia di affondare, sarebbe più opportuno agire per evitare il naufragio che non accapigliarsi per trovare i colpevoli (la maggioranza dei quali, peraltro, vista la lunga persistenza della CO2, è ormai morta). Questo approccio al problema appare del tutto estraneo al pensiero del signor Modi e compagni. Sorge il non infondato sospetto che tale postura, autoproclamatasi come climaticamente giustizialista, serva a nascondere un meno virtuoso egoismo nazionalista. Sulla stessa linea d’onda troviamo ragionamenti, riferiti alle emissioni pro capite di CO2, che sembrerebbero giustificare le posizioni del signor Modi e soci. Un cinese o un indiano, essendo mediamente più poveri, producono una frazione della CO2 prodotta da uno statunitense o da un belga, quindi sarebbero solo questi ultimi a dover ridurre l’inquinamento. Sembrerebbe una asserzione destinata a chiudere definitivamente qualsiasi discussione. Ma, in realtà, qui si entra in un campo concettualmente minato.

Certamente, perseguire una maggiore equità tra gli abitanti del pianeta risulta fondamentale e non solo per una questione ambientale. La necessità di migliorare le condizioni di vita dei cittadini dei Paesi in via di sviluppo è inderogabile e si accompagna all’urgenza di riportare lo stile di vita degli occidentali (in senso lato) su livelli di maggiore sobrietà. Ma questo sarebbe vero anche se non vi fosse alcun problema di natura climatica. Se aspettiamo la realizzazione di una uguaglianza economica tra le nazioni (e allora, perché non anche all’interno delle singole nazioni?) prima di intervenire sulle cause antropiche del cambiamento climatico, ci stiamo dicendo che intendiamo continuare con il trend attuale (o peggio). La lotta contro la povertà deve accompagnare la lotta al cambiamento climatico, non rinviarla.

Inoltre, la posizione espressa dal leader nazionalista indiano pecca anche di miopia (o forse peggio). Infatti, il suo popolo, come gli altri, è destinato a soffrire a causa dei cambiamenti climatici (3) . Come fa ad essere sicuro che la somma algebrica tra i benefici di un maggiore impulso economico (costruito sulle fonti fossili) e i conseguenti effetti nefasti sul clima sia positiva per tutti gli indiani? A quali classi sociali fa riferimento quando pensa alla “libertà” di continuare ad inquinare come un vantaggio? Nasce il sospetto che, al di là della retorica terzomondista, il signor Modi stia prendendo le parti di quella esigua fascia sociale che più ha beneficiato della crescita economica fin qui realizzata dall’India.

Infine, da un punto di vista pratico, se guardiamo il grafico sotto, si vede bene come l’Occidente (includendovi anche il Giappone) contribuisca oggi con meno del 20% alle emissioni planetarie. Per quanto ci si possa impegnare a ridurre tali emissioni, non si riuscirà mai a compensare i previsti aumenti della CO2 prodotta dalle sole Cina e India (oggi responsabili del 33,6% dell’inquinamento totale). Per perseguire un ragionevole obiettivo di riduzione delle emissioni globali occorre un serio impegno in tal senso da parte degli attuali maggiori produttori di CO2. Se ciò non avviene, l’ipotesi di riduzione dell’immissione nell’aria di nuovi gas serra diventa una favola e, conseguentemente, la deriva climatica non potrà che accelerare.

Insomma, per dirla con le parole di Jamieson, “le questioni ambientali, come quella del cambiamento climatico, sono ormai troppo impregnate di slogan politici e di battibecchi di parte. Colpevoli di questa situazione sono soprattutto i negazionisti del cambiamento climatico, ma anche gli ambientalisti non sono del tutto innocenti” (4) . Ci troviamo in una situazione che ricorda un classico problema della teoria dei giochi, ossia il dilemma del prigioniero: ognuno crede che risulti più vantaggioso perseguire il proprio interesse individuale piuttosto che accettare vincoli comuni. Il risultato finale, che si sta ormai profilando all’orizzonte, rischia di essere una dolorosa sconfitta per tutti.

email: toni_iero@virgilio.it

 

NOTE

1. D. Jamieson, “Reason in a Dark Time”, Oxford University Press 2014. Edizione italiana “Il tramonto della ragione”, Istituto della Enciclopedia Italiana 2021. Nella prefazione all’edizione italiana, Telmo Pievani scrive, a proposito della storia della lotta contro il cambiamento climatico: “Questa è la cronaca di un fallimento”. 

2. Per quanto concerne la persistenza media in anni della CO2 in atmosfera, l’IPCC considera un intervallo compreso tra i 50 e i 200 anni. È ben noto che vi sono altri gas in grado di determinare il cosiddetto effetto serra, si pensi al metano. Tuttavia, per vari motivi, essi risultano meno determinanti dell’anidride carbonica nel riscaldamento del pianeta.

3. “Delle 30 città più inquinate al mondo, 22 sono in India, dove il 18% delle morti sono riconducibili all’inquinamento … “. Carlo Pizzati, “Modi ‘festeggia’ la vittoria con un lockdown per smog. New Delhi oggi si ferma”, Repubblica 15 novembre 2021.

4. D. Jamieson, “Il tramonto della ragione”, Istituto della Enciclopedia Italiana 2021.