Precarizzare per occupare? L’eterno ritorno di una ricetta smentita dai dati

scritto da il 24 Gennaio 2022

Pubblichiamo uno stralcio del nuovo libro di Emiliano Brancaccio*: “Democrazia sotto assedio. La politica economica del nuovo capitalismo oligarchico” (Piemme 2022) –

[…] Le crisi si susseguono ma a quanto pare le ricette per affrontarle restano quelle di sempre. Un eterno ritorno è l’idea che aumentando la precarietà dei contratti di lavoro si possono stimolare le assunzioni e l’occupazione.

Largamente adottata a livello internazionale nel corso dell’ultimo trentennio, questa politica ha determinato tra i paesi OCSE una caduta del 18 per cento del livello medio dell’Employment Protection Legislation Index (EPL), l’indice che misura il grado di tutele di cui godono lavoratrici e lavoratori in ciascun paese. Ancor più accentuata è stata la caduta della varianza dell’EPL, cioè la sua variabilità tra i diversi paesi: meno 68 per cento, a indicare una marcata convergenza internazionale nella precarizzazione del lavoro.

L’Italia segue questo corso generale. Dopo un quarto di secolo di politiche di precarizzazione, nel nostro paese i contratti precari sono proliferati ed è diventato piuttosto facile licenziare i lavoratori anche senza giusta causa. Nonostante la parziale risalita ottenuta con la cosiddetta “legge Dignità”, in un trentennio il nostro indice EPL è crollato del 30 per cento. Con la sola eccezione della Grecia, si tratta della caduta più accentuata a livello OCSE.

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Le associazioni padronali e i vertici della politica tuttavia non si accontentano, e invocano dosi ulteriori di flessibilità. La giustificazione è sempre la stessa: i contratti precari possono apparire sgradevoli ma incentivano le imprese ad assumere, e così favoriscono la crescita dell’occupazione. Anche Mario Draghi ribadì questa tesi appena venne nominato presidente della BCE, e l’ha poi ripetuta una decina d’anni dopo, una volta insediatosi a Palazzo Chigi. Non è il solo. Premier, ministri e banchieri centrali, ripetono quasi all’unisono lo stesso mantra. E il sostegno di blasonati economisti non si fa attendere. Tito Boeri, in Italia, è uno dei tanti.

Eppure, per quanto bizzarro possa sembrare, in un libro pubblicato qualche anno fa proprio da Boeri insieme a Jan van Ours, si trova una tabella che riassume le evidenze empiriche sulle implicazioni della flessibilità del lavoro sull’occupazione e sulla disoccupazione. [1] Dalla tabella si evince che su ventisei analisi empiriche relative agli stock totali di occupati e disoccupati, ben diciotto di esse rilevano che la flessibilità non ha correlazioni con l’occupazione e la disoccupazione, e altre tre segnalano addirittura che la flessibilità è associata a un calo dell’occupazione e a un aumento della disoccupazione. In sostanza, il professor Boeri mostra che oltre l’80 per cento della ricerca scientifica che egli stesso ha esaminato smentisce lo slogan secondo cui i contratti precari stimolano le imprese ad assumere. Il Boeri propugnatore di ricette fa un po’ a pugni con il Boeri scienziato.

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Questo risultato non deve meravigliare. A ben vedere, infatti, l’idea che la precarizzazione del lavoro aiuti a creare posti di lavoro risulta seccamente smentita dalla ricerca scientifica prevalente. In una recente meta-analisi, abbiamo mostrato che l’88 per cento delle pubblicazioni accademiche dell’ultimo decennio su riviste di rango internazionale nega l’esistenza di relazioni statistiche significative tra la riduzione degli indici di protezione del lavoro e l’aumento dell’occupazione. [2] L’evidenza è così schiacciante che persino le grandi istituzioni internazionali propugnatrici della flessibilità hanno dovuto prenderne atto. Vari rapporti del Fondo Monetario Internazionale, dell’OCSE e della Banca Mondiale riconoscono che il mantra della precarizzazione come motore dell’occupazione non trova adeguati riscontri empirici. Nei loro documenti ufficiali si legge testualmente che l’impatto occupazionale della libertà di licenziare è «insignificante», «non significativo», «nullo». [3]

In un dibattito con me presso l’Università di Siena, il direttore dell’OCSE Stefano Scarpetta arrivò a sostenere che queste evidenze dopotutto non lo mettevano troppo in imbarazzo, dato che la sua istituzione in fin dei conti non era mai stata a favore della flessibilità del lavoro. Il pubblico presente scoppiò quasi a ridere. A molti venne in mente il modo in cui il premio Nobel Paul Krugman qualche anno prima aveva commentato la pervicace insistenza dell’OCSE sulle riforme del lavoro: «L’ultimo rifugio dei farabutti». […]

*Professore associato di politica economica presso il dipartimento DEMM dell’Università del Sannio

Twitter @emibrancaccio

 

NOTE

[1] Tito Boeri e Jan Van Ours, The Economics of Imperfect Labour Markets, Princeton University Press, Princeton, 2008.

[2] Emiliano Brancaccio, Fabiana De Cristofaro, Raffaele Giammetti, A Meta-Analysis on Labour Market Deregulation and Employment Performance: No Consensus around the IMF-OECD Consensus. «Review of Political Economy», vol. 32 (1), 2020, pp. 1-21.

[3] IMF, Time for a Supply Side Boost? Macroeconomic Effects of Labor and Product Market Reforms in Advanced Economies, in Michael Harrup (a cura di) World Economic Outlook, Washington, DC 2016; OECD, Short-Term Labour Market Effects of Structural Reforms: Pain before the Gain?, in OECD Employment Outlook, Paris 2016; World Bank, World Development Report 2013, World Bank, Washington, DC, 2013. Cfr. anche IMF, World Economic Outlook. Managing Divergent Recoveries, Washington, DC, aprile 2021.