La stella polare per la crescita italiana è la produttività

scritto da il 23 Dicembre 2022

Post di Yassin Sabha, Esperto globale di Sviluppo Economico, e Carlo Giannone, Consulente e Fondatore di Pillole di Politica blog e Finanza, Pizza e Mandolino podcast – 

Il 2023 sarà un anno difficile per il sistema Italia e soprattutto per le nostre imprese: aumento dei tassi di interesse, innalzamento dei costi energetici, diminuzione del potere di acquisto dei consumatori e della reperibilità di materie prime e di beni intermedi. Per queste ragioni, il FMI prevede un calo del nostro PIL dello 0.2% mentre l’UE e l’OCSE, più ottimiste, una crescita solo dello 0.3%. Ma oltre ad affrontare la crisi di breve termine, quali dovrebbero essere le priorità del Governo per sostenere lo sviluppo economico del Paese?

Per tornare a crescere

Brevemente, se l’Italia vuole tornare a crescere, deve concentrarsi sulla produttività. Con una popolazione in rapido invecchiamento (tasso di natalità di 1,24 nascite per donna, il secondo più basso tra i Paesi OCSE), investimenti produttivi che arrancano (nonostante una crescita del 19% su base annua nel 2021, quasi la metà degli investimenti sono stati in costruzioni), e dinamiche geopolitiche che accentuano le vulnerabilità del Sistema Paese nelle catene di valore globali (per esempio, sicurezza energetica, forniture di beni essenziali, e beni intermedi per la produzione), la ricetta per una crescita resiliente di lungo periodo è un’accelerazione delle riforme strutturali sulla produttività al fine da mitigare la dipendenza cronica da interventi pubblici ed indebitamento.

La performance dell’ultimo ventennio

Negli ultimi 20 anni, l’Italia ha registrato uno -0.3% di produttività all’anno, contro una media OCSE del +0.3%. In quegli anni, la crescita del PIL in Italia è stata sostenuta esclusivamente dall’accumulazione di capitale. Nel primo decennio di riferimento (tra il 2002 e il 2011), la produttività è scesa dello 0.6% all’anno (-3.3% solo nel 2009), contro una media OCSE del +0.4%. Erano gli anni in cui la Cina ha fatto definitivamente ingresso nel mondo globalizzato con l’accesso all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), l’Italia è entrata nell’Area Euro, e la crisi finanziaria ha colpito l’economia mondiale. Nel secondo decennio di riferimento (2012-2021), la produttività è rimasta a zero. Lo scorso anno, una ripresa dopo l’anno del Covid (+0.8%), ma sempre lontana della media OCSE (+1.3%).

Confronto impietoso

In confronto, negli ultimi 20 anni, in Sud Corea la produttività è aumentata in media del 2.3%, in Irlanda dell’1%, negli Stati Uniti dello 0.8%, in Germania dello 0.5%, e nel Regno Unito dello 0.4%. Ciò a dimostrare la maggiore vulnerabilità del Sistema Italia a crisi esterne rispetto ad altri Paesi industrializzati. Ovviamente, non tutti i settori si sono comportati allo stesso modo. E non tutte le regioni d’Italia.

La produttività è sintomo di resilienza

Tutto questo secondo i dati OCSE, che misurano la produttività multifattoriale, che include tutti quei fattori che contribuiscono alla crescita del PIL ma che non possono essere spiegati dall’accumulazione di capitale e di lavoro. Pragmaticamente, la produttività è ciò che conta veramente per far crescere un Paese, citando le parole di Paul Krugman. È sintomo di resilienza del sistema, dando al Paese la possibilità di crescere senza dover ricorrere a continui interventi pubblici (che possono creare distorsioni), a dipendere da capitali (che faticano nei momenti di crisi), e da nuovo indebitamento che rende il sistema ancora più vulnerabile nel lungo periodo.

produttivita

Che cosa fa crescere la produttività?

I fattori che incidono alla crescita della produttività sono molti. A partire dall’efficienza con cui vengono impiegati i fattori di produzione. Per esempio, grazie all’impiego di tecnologie e digitalizzazione, ma soprattutto elementi sistemici come la qualità delle istituzioni, l’efficienza del sistema giuridico, la burocrazia, la libera concorrenza, l’allocazione di risorse verso imprese produttive (incluso il funzionamento del mercato dei capitali), la qualità delle infrastrutture, e la competitività del capitale umano. Nel breve termine, il sostegno al fabbisogno energetico e alla digitalizzazione delle imprese (si legga PMI). Tutte aree in cui l’Italia arranca.

Italia? Basta essere il fanalino di coda

Il punto sta nel capire quali siano veramente i nodi da risolvere per sbloccare il Paese, individuare i settori economici a più alto potenziale (avendo il coraggio di lasciarne alcuni indietro, con le giuste politiche di assistenza sociale), porre le giuste priorità nelle politiche di sviluppo economico, e governare tutte le forze in campo (pubbliche e private) verso l’obiettivo comune della crescita.

In un momento di crisi come questo, con la quantità di risorse pubbliche (ovvero, UE) e parastatali (che vuol dire CDP) a disposizione, l’occasione di (ri)costruire un Sistema Paese più resiliente è unica.

L’Italia non può e non deve più rimanere il fanalino di coda in Europa. Altrimenti essere parte del G7 e del G20 rimarrà solo un’eredità del passato e il nostro Paese conterà sempre meno nello scacchiere geopolitico europeo e internazionale.