E adesso? Il dilemma dei tassi mentre brucia Gaza

scritto da il 18 Ottobre 2023

Post di Luca Vallarino, responsabile Trading Desk e gestore e membro del Comitato Investimenti di IMPact sgr – 

Ci troviamo ormai nella parte finale del percorso di rialzo dei tassi d’interesse di riferimento da parte delle banche centrali, anche se il livello di inflazione che traspare dai dati (la crescita dei prezzi negli Stati Uniti è del +3.7% anno su anno nel mese di settembre) risulta ancora piuttosto lontano dal target del 2% e i rischi di brusche inversioni nel percorso di disinflazione dell’economia appaiono decisamente non trascurabili, soprattutto dopo i recenti sviluppi in area medio-orientale.

Il Pil americano va, nonostante il rialzo dei tassi

Negli Stati Uniti, la crescita del prodotto interno lordo sarà verosimilmente intorno al 2.5% con un tasso di disoccupazione inferiore al 4%. Se consideriamo che la prima economia mondiale è reduce da un rialzo dei tassi di interesse di 525 punti base in meno di un anno e mezzo, questo risultato appare particolarmente impressionante. La crisi economica che tutti gli operatori, e la FED in primis, si aspettavano per quest’anno per il momento tarda ad arrivare e nell’ultima lettura di inizio ottobre i posti di lavoro creati negli Stati Uniti hanno addirittura pressoché triplicato le aspettative degli economisti.

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(Andrew – stock.adobe.com)

Come è stato più volte osservato, ad una politica monetaria restrittiva, si è affiancata in America una politica fiscale ultra-espansiva, che non è riconducibile unicamente alla prosecuzione inerziale dei sussidi dell’epoca del Covid, ma che è proseguita con particolare forza sotto l’amministrazione Biden. D’altra parte, anche nelle file del partito repubblicano, viene meno la spinta ad un alleggerimento del peso dello Stato, come era invece nello scorso decennio, quando movimenti come il Tea Party esercitavano pressione sui partiti per contenere la spesa pubblica.

Gli Usa, la crescita e un enorme debito

La crescita americana è quindi finanziata da debito pubblico, il cui servizio continua a diventare sempre più oneroso. L’indebitamento degli Stati Uniti è oggi sopra il 120% del PIL (il livello italiano negli anni della crisi del 2011) e con i tassi via via crescenti, la spesa per interessi ha ormai superato il livello del 3.5% del PIL. Negli anni ‘80, il servizio del debito era su livelli relativi ancora più elevati, ma all’epoca i tassi erano molto più alti mentre il rapporto debito/PIL era tra il 40% e il 50%.

Entro la fine del 2024, il Tesoro americano si troverà di fronte ad un enorme esigenza di rifinanziamento di circa il 40% del proprio debito pubblico (più l’emissione di nuovo debito per finanziare il deficit corrente): se i tassi continuassero a salire e se, oltretutto, l’inflazione dovesse rientrare entro il target del 2%, in modo da non sostenere più il contenimento nominale del rapporto debito/PIL, ci si potrebbe trovare di fronte ad un reale problema di sostenibilità del debito.

Stati Uniti, il downgrade di Fitch

Un primo segnale è stato il downgrade del debito pubblico americano da parte dell’agenzia di rating Fitch, avvenuto ad inizio agosto. Nell’abbassare la valutazione da AAA ad AA+, l’agenzia ha citato un deterioramento degli standard di governance e il fallimento di trovare una soluzione tempestiva nel corso delle negoziazioni per il tetto del debito dello scorso mese di giugno.

A causa delle forti esigenze di rifinanziamento e di nuove emissioni, l’offerta di Treasury risulterà necessariamente crescente nei prossimi mesi e, non essendo più assorbita dalla banca centrale, andrà a pesare sul mercato. Un altro fattore da non sottovalutare è la diminuzione di alcuni grandi compratori esteri di titoli sovrani americani, in particolare cinesi e sauditi (gli assets stranieri detenuti dagli arabi sono oggi piombati ai minimi da 14 anni).

Il rischio che viene dal Giappone

L’instabilità potrebbe risultare anche dall’aumento dei rendimenti dei titoli sovrani giapponesi, dove il decennale nelle ultime settimane si avvicina “pericolosamente” all’1%, con le scadenze ultra-long a 40 anni che si avvicinano al 2%, livello irraggiungibile da circa dieci anni. Dopo che il governatore della Bank of Japan, Kazuo Ueda, ha dichiarato che il limite di oscillazione del decennale da -0.5% a +0.5% non è rigido, e la banca interverrà con flessibilità solo qualora i rendimenti dovessero sfiorare l’1%, i tassi hanno gradualmente iniziato a salire. I giapponesi, abituati da oltre un decennio a rendimenti a zero o negativi sui propri titoli di stato, sono grandi compratori di Treasury. Qualora i tassi dei propri titoli domestici tornassero a rialzarsi, questo potrebbe rappresentare un disincentivo ad acquistare governativi esteri.

Tassi, che fare. Le ipotesi sulle mosse della Fed 

I rendimenti dei titoli di Stato americani hanno reagito nelle ultime settimane e si sono mossi portandosi sui massimi da circa 15 anni: a sei mesi il tasso è oltre il 5.50%, a due anni al 5.10%, a dieci anni al 4.70%.

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Immagine di Alex Bierwagen per Unsplash

Il movimento è stato tanto intenso che Mary Daly, Governatrice della FED di San Francisco, ha commentato che l’attuale rialzo della parte lunga della curva di fatto equivale ad un ulteriore rialzo del tasso dei Fed Funds e che, se il mercato dovesse rimanere su questi livelli, la FED potrebbe dover agire meno di quanto preventivato.

Il ritorno del fronte medio-orientale

Tuttavia, la riapertura del doloroso fronte medio-orientale con la reazione dell’esercito israeliano contro il quartier generale di Hamas a Gaza a seguito del terribile attentato subito lo scorso 7 ottobre, getta ulteriore incertezza su uno scenario globale decisamente complesso. Il tradizionale ruolo di bene rifugio del dollaro e dei titoli del debito pubblico americano dovrebbe rafforzare la domanda di Treasury e frenare la salita dei rendimenti sulla parte lunga della curva, a fronte di una crescente instabilità politico-economica.

Sui tassi lo spettro della guerra del Kippur

Allo stesso tempo però, molti osservatori temono ripercussioni sul prezzo del petrolio, qualora il conflitto dovesse allargarsi coinvolgendo altri Paesi arabi, ad esempio se gli Stati Uniti iniziassero ad applicare con più rigore le sanzioni nei confronti dell’Iran, al contrario di quanto avvenuto negli ultimi mesi proprio per permettere un aumento dell’offerta mondiale di greggio. Nel precedente storico della guerra del Kippur, nel 1973, il prezzo del petrolio quadruplicò provocando un lungo shock inflattivo in Occidente. Un forte squilibrio da offerta dato da un rialzo importante del prezzo del greggio potrebbe ostacolare molto il già difficoltoso sentiero di decelerazione dell’inflazione e obbligare la Fed ad agire ulteriormente.