Dal sarcasmo al potere al buy-back di Stato, le parole sono importanti

scritto da il 08 Agosto 2018

Di solito, era Barbara D’Urso ad esordire con “ragazzi”. E un certo successo di pubblico era garantito, a dispetto del brusio filosofico-salottiero che conteneva sdegno per le melense performance linguistiche e comportamentali della conduttrice. Adesso, il protagonista è il ministro dell’Interno, il quale, in un tweet del 4 agosto 2018, commentando un evento, mescola politica, sarcasmo e goliardia, come se il proscenio fosse sempre quello del Grande Fratello: “Dai, ragazzi, andrà meglio la prossima volta” scrive Matteo Salvini. Se volessimo essere puntigliosi, rivolgeremmo immediatamente la nostra attenzione a ciò che ci si aspetta da un uomo delle istituzioni, il cui comportamento dovrebbe apparirci per lo meno esemplare. Il caso in questione, tuttavia, ci rinvia a una diversa preoccupazione. Pertanto, prima di procedere oltre, riproponiamo interamente il tweet di Matteo Salvini o di chi, incautamente, agisce per lui. Vogliamo sperare che il ministro sia distratto e si sia fidato di un social media manager inelegante.

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Se questi sono i principi mediante i quali il numero uno del Viminale deve dialogare con la gente, allora o siamo stati rinchiusi in un itinerante bar dello sport o ci siamo appena risvegliati nell’Opera da tre soldi e stiamo – tutti indistintamente – rovistando in un guardaroba da mendicanti alla ricerca di una nuova e convincente personalità.

Proviamoci, di conseguenza, a fare l’analisi linguistica essenziale del tweet di Salvini, dato che il nostro linguaggio è fatto di strutture, funzioni e significati che, spesso, in profondità, rivelano più di quanto l’autore pensi di aver scritto. Secondo la teoria degli atti linguistici, la frase salviniana “Dai, ragazzi, la prossima volta andrà meglio”, opportunamente corredata di emoticon, corrisponde a un atto rappresentativo, cioè a un enunciato mediante il quale lo scrivente dimostra di avere determinate conoscenze sulla realtà circostante.

I “ragazzi” costituirebbero il destinatario di questa ‘forza’ conoscitiva, come se ormai fosse ampiamente riconosciuta un’area d’intimità entro la quale le parole di un ministro hanno valenza e credito per il semplice fatto d’esser pronunciate. A ciò dobbiamo aggiungere la specifica funzione di questo linguaggio, che è interamente concepita per determinare un certo effetto sull’interlocutore: stiamo parlando della funzione conativa. È evidente che, quando parliamo, non prestiamo attenzione a queste peculiarità o a certi dettagli, ma basta una pausa di riflessione per documentare una certa pericolosità.

Tra le altre cose, non ci si rende neppure conto che, in questo caso, il destinatario ‘subisce’ l’atto rappresentativo e non è il centro emotivo della frase; al contrario, è l’oggetto d’una qualche forma di coercizione. “Ragazzi” dunque non reca in sé alcunché di ‘affettivo-tutoriale’ sia perché nasce in un contesto d’uso basato interamente sul potere conversazionale dello scrivente, il quale è asimmetrico rispetto a chi legge, sia perché fa leva su qualcosa che spesso si sottovaluta: il sarcasmo, come s’è detto, ovverosia un metodo di comunicazione fondato sull’ambiguità dei termini e della struttura e per cui le cose non hanno mai un significato convenzionale.

È davvero necessario citare Fahrenheight 451 o, a voler essere più raffinati, l’Austin di Come fare cose con parole per guadagnare credito e indurre il lettore ad aprire gli occhi su quanto sta accadendo? Qualcuno pensa che tutto questo sia una forzatura ermeneutica? Ebbene, gli obiettori sappiano che questi sono i processi coi quali si forma il pensiero sociale e, soprattutto, ci si avveda che il linguaggio è la premessa dei disastri economici e sociali! Si comincia col creare delle associazioni impertinenti e infondate e si finisce col darle per scontate. In questo caso, per schivare la polemica sul razzismo e far bella figura coi propri follower, non solo si fa passare come normale la derisione d’una protesta civile e democratica, ma si trasforma la questione ‘razzismo’ in una sorta di barzelletta.

Se curiosiamo nel profilo Facebook del ministro Fontana e ne riportiamo l’ormai nota dichiarazione con cui avversa la Legge Mancino, rileviamo alcuni meccanismi di comunicazione che differiscono da quelli appena descritti solo per grado: “Aboliamo la legge Mancino, che in questi anni strani si è trasformata in una sponda normativa usata dai globalisti per ammantare di antifascismo il loro razzismo anti-italiano”. Se dovessimo essere scrupolosi, per farne un’analisi ‘clinica’ ci vorrebbe lo spazio di una monografia. Ci limiteremo ad alcuni spunti.

La tecnica ‘verbale’ è quella imperativo-categorica, l’atto linguistico è, questa volta, direttivo (…con un atto direttivo il parlante dà ordini, consigli e, in genere, fa in modo che il destinatario compia un’azione) ed è in gioco ancora una volta l’inibizione della libertà: poco prima, s’è parlato di coercizione, adesso, è in gioco la discriminazione razziale, etnica, nazionale o religiosa, eppure il discorso di Fontana neppure per un attimo è attraversato dal dubbio. Non è previsto uno spazio di dialogo. Di là dal ‘nero’ trionfalismo, vogliamo far notare un binomio su cui nessuno s’è soffermato: “anni strani”.

Allo stesso modo in cui Salvini ha scritto “la prossima volta”, anteponendo a tutto lo sdegno, ma guardandosi bene dal farne dichiarazione esplicita, così Fontana spinge il lettore verso il mistero del tempo, benché il tema sia talmente importante che non ci si dovrebbe mai permettere tanta approssimazione e le parole, come si suol dire, dovrebbero essere pesate con lo scrupolo d’un saggio alchimista. Una considerazione ulteriore va fatta a proposito del gioco retorico con cui il razzismo viene traslato esattamente di centottanta gradi: se vogliamo negare una situazione negando il suo contrario, in retorica facciamo ricorso alla figura dell’antitesi: nel caso in specie, “(…) per ammantare di antifascismo il loro razzismo anti-italiano”.

Ciò di cui bisogna preoccuparsi concretamente è la nascita di queste nuove categorie del linguaggio sociale, che potremmo definire categorie dell’azione occulta e in funzione delle quali i parlanti non s’accorgono di essere meri e inconsapevoli esecutori. Oggi, sui social network, si legge, anche, per esempio, che i fenomeni di razzismo sarebbero provocati da una certa sinistra per mettere in ombra Salvini, che l’unico popolo da salvare è quello italiano, che gli extracomunitari ci privano di lavoro, che le aggressioni dell’ultimo mese non sono espressione di razzismo e via discorrendo. In poche e povere parole, “ragazzi, sono anni strani”.

Cosa succede sul piano economico-finanziario? Qualcosa di simile, che abbiamo già provato a raccontare e che non ci stancheremo di documentare, pur sapendo di esporci al ‘linciaggio’ dei seguaci di certi inquietanti profeti. Nei giorni scorsi, rilevando un tweet di Carlo Alberto Carnevale-Maffè a proposito d’un buy back del Tesoro da 950 milioni, ci siamo concessi una provocazione, menzionando Claudio Borghi. Naturalmente, s’è scatenato il putiferio a discapito di un dibattito costruttivo o per lo meno oggettivo. Anzitutto, diciamo cos’è il buy back per chi non avesse dimestichezza con la materia. Si tratta del riacquisto, in questo caso a opera del MEF, dei propri titoli di debito, un’operazione che appartiene alla routine d’efficienza finanziaria della gestione del debito.

Perché si fanno? I motivi sono numerosi, ma, volendo semplificare, possiamo dire che il riacquisto si traduce almeno superficialmente in una riduzione del debito e degli interessi di riferimento. Quindi, non sorprende che il Tesoro abbia utilizzato le giacenze del Conto disponibilità, com’è naturale. È altrettanto naturale che tale riacquisto avvenga per lo più a condizioni molto vantaggiose o sufficienti a garantire un buon effetto leva e, molto di frequente, sia necessario anche a tutelare i contratti delle P.A. privi di copertura. Qualcuno potrebbe pensare che si tratti del cane che si morde la coda, ma è inevitabile il ricorso a tale pratica. Sulla base di queste precisazioni, adesso rendiamo noto il dibattito e ne traiamo le debite conseguenze.

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Nel nostro tweet, facciamo una sola banale riflessione. Il circuito entro il quale si svolge questo processo è quello dell’Eurozona. Nel momento in cui si avvia un buy back, l’ente pubblico o privato che ne sia protagonista non fa altro che darne incarico alle banche, le quali, pur essendo le maggiori detentrici del debito italiano, sono anche il veicolo di tutti quei fondi e quelle SGR che, legittimamente, in questo stesso contesto temporale, assumono posizioni short e ‘speculano’ sull’inaffidabilità del nostro paese. Nello stesso tempo, per non apparire troppo pedanti, tacciamo dell’azionariato di alcune tra le più grandi banche italiane.

Che cosa intendiamo dire? Nulla di originale, fuorché il buy back è un doveroso atto di fiducia nei confronti dei mercati, dell’apparato interbancario e dell’Eurozona. Se Borghi & Co. fossero davvero audaci e coerenti, dovrebbero riuscire a farne a meno. Non sapremmo dire come… sia chiaro! Morale della favola? S’è fatta un’intera sconcertante campagna elettorale contro l’euro e i maledetti globalisti per poi nascondersi dietro un dito. La verità è una e una sola: la gente comune, purtroppo, non sa cos’è un buy back né immagina che il MEF periodicamente riacquisti i propri titoli di debito, pertanto continua a pensare che Borghi, Di Maio, Salvini et al. siano gli integerrimi difensori del verbo italiano contro le vessazioni d’un’Europa Madre cattiva.

È così che Claudio Borghi ci dà dell’ignorante o non sa di cosa stiamo parlando. E le categorie d’azione occulta si moltiplicano a dismisura. C’è poco da fare: sono “anni strani”, anni in cui un presidente della Commissione Bilancio della Camera si può esprimere così… di là  dall’oblio della grammatica!

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