Il miracolo della politica in Italia, soldi e successo senza studio. Perché?

scritto da il 25 Settembre 2019

Il dato statistico

Solo il 31% dei politici italiani ha conseguito una laurea (EUROSTAT, 2015)

Elaborazione dell'autore con dati EUROSTAT

Elaborazione dell’autore con dati EUROSTAT

Antefatto politico-letterario

Foscolo fu un capitano combattente: aveva il diritto di raccontare il dolore della sconfitta e della guerra; Vittorio Sereni, un esempio del nostro tempo, oltre che poeta, fu un ufficiale di fanteria, prese parte alla seconda guerra mondiale e conobbe la dimensione della prigionia; Goethe fu funzionario ministeriale e grande protagonista della politica internazionale del proprio tempo; Pitagora non fu da meno, se si pensa al movimento politico-sociale originatosi dalle sue prette iniziative; ed è evidente che potremmo insistere nel documentare le testimonianze. Com’è possibile immaginare di farsi operatori d’una realtà che non si conosce?

Nota di metodo

Tutte le volte in cui ho scritto per Econopoly, ho usato la prima persona plurale. Qualche lettore me ne ha chiesto la motivazione ed io ho risposto dicendo che ‘il noi’, nella mia visione della letteratura giornalistica, è espressione d’umiltà e coinvolgimento diretto del lettore, laddove ‘il tu’, a mio avviso, dev’essere lasciato agli editorialisti o a quelle grandi figure la cui scrittura possa essere considerata esemplare almeno per esperienze di vita. Questa volta, tuttavia, voglio prendermi una licenza e scrivere in prima persona singolare, come s’è dedotto fin dalle prime battute. Spero che, nelle righe a venire, quest’impropria attribuzione sia per lo meno legittimata.

Fatti, conseguenze e interpretazione

Nei giorni scorsi, poco dopo la designazione dei ministri e dei sottosegretari, mi sono lasciato assalire da cocenti dubbi sull’ ‘autorevolezza’ e sulla qualità curriculare di alcuni membri dell’esecutivo. Di primo acchito, non ho resistito alla tentazione di lanciare qualche post e qualche tweet di fastidio in cui contestavo l’assenza di un adeguato percorso scolastico nella formazione di Teresa Bellanova o in quella di qualche suo collega; il che ha attirato d’un subito su di me il disprezzo di parecchi utenti. Alcuni mi hanno solo insultato, altri minacciato; altri ancora bloccato, limitandosi, comunque e stupidamente, alla sequenza letterale delle parole. In effetti, avrei dovuto pensarci in tempo: gl’idoli non si toccano; ed io – lo ammetto – mi sono espresso male e sbrigativamente dando adito all’equivoco. La gente ha sempre bisogno di un mito, d’una forma di compensazione immanente e grazie alla quale si possa dire “posso farcela anch’io”.

Beh, è vero: chi sono io per diffidare della qualità manageriale, per così dire, di un neoministro? Domine, non sum dignus.

Teresa Bellanova, Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari, Forestali e del Turismo, ha la terza media e nessuno può permettersi neppure lontanamente di ‘sporcarne’ l’immagine o svilirne la dignità. Tacciamo poi di coloro che hanno tentato di calunniarla o denigrarla attaccando ora il suo aspetto fisico ora il suo abbigliamento. Qui, semmai, si pone un problema di competenze acquisite nell’amministrazione della Cosa Pubblica, nel management, spesso dato per scontato o fin troppo trascurato a vantaggio del primato politico.

Non è la prima volta in cui un dicastero viene occupato da chi non ha trascorso molto tempo sui banchi di scuola. Negli anni recenti – per non andare lontano – D’Alema, Veltroni, Matteoli, Rutelli, Fedeli, Poletti, Lorenzin e tanti altri, pur non avendo alcun titolo specifico, sono stati alla ribalta delle istituzioni e, soprattutto, (alcuni, non tutti) sono stati acclamati o, tutto sommato, accettati di buon grado. Allo stesso modo, nel primo Governo Conte: Barbara Lezzi, il capopopolo Matteo Salvini e il suo pari grado Luigi Di Maio; quest’ultimi, com’è noto, particolarmente ‘rappresentativi. Qualcuno sicuramente ricorderà Ottaviano Del Turco, il Ministro delle Finanze con la terza media del Governo Amato. È naturale affidare a uno politico privo di una conoscenza tecnica la linea che un paese deve assumere su capital gains, titoli di stato, cuneo fiscale, spesa pubblica et cetera? Lo stesso Bettino Craxi fece il proprio ingresso a Palazzo Chigi sprovvisto di una laurea. Dunque: nessuno scandalo per il caso Bellanova o per Nunzia Catalfo, Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, ma farsi ammaliare dal romanticismo politico e farsi risucchiare dalla saga eroica di coloro che hanno vinto le avversità dell’esistenza, sconfitto la povertà e il dolore fino a posizionarsi tra le più alte cariche dello stato è pericoloso: se ne diffonde un modello fuorviante, accecante. Se è vero, infatti che la laurea non è garanzia di qualità, è altrettanto vero che il suo opposto non può diventare simbolo di fierezza.

Perché certi fenomeni di ascesa sociale, si verificano più in politica che in qualsiasi altro contesto? Perché la politica può essere il passe-partout d’un successo facilitato? E, se di incarico rappresentativo dobbiamo pur parlare, come si può tralasciare il fatto che un Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca deve essere emblema di rappresentanza per tutti quegli studenti e quei ricercatori che da lei, in qualche modo, dipendono? La contraddizione è ingestibile, se si considera che Valeria Fedeli, massimo ‘manager’ italiano dell’istruzione, dell’università e della ricerca dal 2016 al 2018, non ha mai messo piede all’università e non ha mai avuto esperienze di ricerca scientifica.

È strano, ma sembra che si stia diffondendo una sotterranea, tacita e insidiosissima equazione tra genuinità e incultura: tanto più si è incolti e impreparati, quanto più si è ‘biologici’, per così dire, con tutte le riserve sulla fiabesca scientificità dei prodotti bio. Il Movimento 5 Stelle ne ha fatto un vanto, un silenzioso e potentissimo meme che si è allargato a macchia d’olio, senza che alcuno si opponesse concretamente. Ciò che appare più allarmante in Di Maio è non tanto il suo insuccesso scolastico o la sua quasi nulla esperienza professionale, quanto piuttosto il fatto che, nonostante commetta una quantità di errori incontenibile, dalla grammatica alla geopolitica, la gente continua a riconoscergli dei meriti che si fa fatica, diversamente, a individuare. Di conseguenza, Di Maio non ha colpe e non è affatto un problema. Al contrario, è colpevole l’elettore ed è problematico il suo comportamento.

Sì, Teresa Bellanova può essere un esempio per molti di noi: bracciante agricola, sindacalista, indefessa lottatrice contro il caporalato; insomma, l’american dream italianizzato! E mi preme sottolineare che non si tratta d’affermazioni sarcastiche.

All’inizio del secolo scorso, l’analfabetismo, in Italia, riguardava quasi l’80% della popolazione; gli stessi insegnanti, talora, erano semianalfabeti e incapaci di istruire gli scolari. E non si può passare sotto silenzio che nell’epoca immediatamente postunitaria, come ha sapientemente documentato Tullio De Mauro in un’opera del 1994, Come parlano gli italiani, su 25 milioni di abitanti solamente 160.000 parlavano l’italiano, cosicché tra un cittadino di Milano e uno di Palermo non era neppure possibile dialogare. Questi dati ci fanno capire che la nostra comunione linguistica e, più in generale, la nostra consistenza culturale sono meno mature di quanto s’immagini.

L’uomo è indubbiamente rappresentato dalle proprie opere, ma la scuola è un rito di passaggio fondamentale, un’esperienza e una prova che, oltre a istruire lo studente, ne disciplinano l’intelletto: la scuola incalza l’uomo a ragionare secondo il principio dell’investimento, dell’indagine e della scoperta.

Forse che le urla di un pescivendolo di un mercato rionale non hanno la stessa potenza di fascinazione che, per lo più e tendenziosamente, è evocata dalle voci di un accademico? Un muratore che si spacca la schiena sotto il sole per parecchie ore non merita tutta la nostra ammirazione? Io – e qui tento umilmente di accreditare l’uso della prima persona singolare – sono stato bracciante agricolo, cameriere, muratore, pescatore: di notte, andavo per mare con una barchetta lungo la costa che si estende da Selinunte a Mazara del Vallo. Ho conosciuto amaramente l’implacabile dominio del bisogno, quello soffocante e incontrastabile.

Quando ottenni i primi contratti di docenza presso l’Università degli Studi di Palermo, di mattina facevo lezione, ma di notte mi recavo al mercato ortofrutticolo, dato che insegnavo per pochi euro l’ora, che naturalmente non garantivano alcuna sopravvivenza dignitosa. Nel tempo, sono arrivate le presunte ricompense, ma nessuna ha mai eguagliato i livelli di restituzione economica-sociale di certa politica. Altri, che ho conosciuti, sono stati meno fortunati di me: ricordo uno studente d’ingegneria che viveva dentro una 126, pur di potersi permettere gli studi. Ebbene, quel ragazzo si laureò, ma… non fece politica e non poté godere di redditi adeguati agli sforzi fatti.

Ben venga l’opera d’una Bellanova di turno, ma non se ne faccia un caso, non si trasformi in eroismo esemplare! Paola De Micheli, diversamente, pur avendo conseguito una laurea, è nota alle cronache d’impresa per alcuni clamorosi fallimenti nell’ambito della gestione delle cooperative agroalimentari di cui è stata manager. Se il curriculum professionale di un comune cittadino fosse così negativamente marcato, molto difficilmente egli riceverebbe un premio dalla società. Forse, farebbe fatica pure a trovare un nuovo lavoro. Siamo costretti ad ammettere dunque che, in politica, queste unità di misura sono evidentemente inadeguate.

Intendiamoci: il guaio non è alcuni uomini hanno potere e altri no. Questo non mi spaventa né mi preoccupa. Si pensa davvero che si possa fare della buona politica, senza possedere il cosiddetto potere? L’economia di un paese è anche basata sulla forza contrattuale dei suoi amministratori. Con gli ideali di purezza non si riempie la pancia. E se dobbiamo dire le cose come stanno… è preferibile che certi posti di comando siano occupati da persone alle quali non giri la testa al passaggio di denaro. Far parte di una comunità vuol dire rinunciare alla libertà incondizionata del tempo e dell’azione, ma ciò risulta accettabile in presenza di forme di agio e benessere, di cui non tutti dispongono. Diversamente, s’inveisce per compensazione e per ignoranza di mezzi e fini. Un cittadino normale è distante dall’autorità costituita, ma la distanza è ciò per cui egli riconosce l’autorità, la rispetta, ne teme l’intervento e, nello stesso tempo, nutre un’invidia latente e pronta ad esplodere. È così che ai margini di questa società qualcuno vede sempre complotti, qualcun altro sempre i misteri e tutti sono affamati di scandali e condanne, come se la condanna ponesse fine alle ingiustizie.

Il guaio, riprendendo il discorso precedente, è questo: che non si può fare a meno di definire ingiusta una società in cui un ricercatore scientifico, che ha dedicato una vita agli studi e, probabilmente, proviene pure da una famiglia umile, debba vivere di stenti con uno stipendio di poco più di mille euro al mese, laddove un qualsivoglia politico, al contrario, col minimo sforzo intellettuale, riesca a decuplicare quel reddito. Sui libri di storia, domani, i nostri figli e i nostri nipoti troveranno il nome di Luigi Di Maio, Matteo Salvini, Danilo Toninelli, forse anche di Laura Castelli e, a quel punto, sarà davvero difficile spiegare loro la differenza tra alcuni protagonisti della musica trap, le devianze psicotecnologiche e la politica quali parti del circo mediatico.

<<Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di proscrizione e lo so: ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi m’opprime mi commetta a chi m’ha tradito? (…) Or dovrò io abbandonare questa mia solitudine antica, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese, posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo; quanti sono gli sventurati? E noi, purtroppo, noi stessi italiani ci laviamo le mani col sangue degl’italiani (…) Poiché ho disperato della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra le braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da pochi uomini, compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de’ miei padri.>>

 

FOSCOLO, U., 1802, Ultime lettere di Jacopo Ortis

La scena, adesso, è salviniana, è rimasta salviniana, in parte anche dimaiana, è un’abbuffata insana e istrionesca, un atto di collegamento regressivo tra alcuni uomini e i loro seguaci. Neppure il cinguettio degli uccelli di Aristofane avrebbe garantito allo spettatore una resa migliore di quella che ci viene servita di ora in ora e di cui si può solo ridere a crepapelle. La presunta destra liberale, forse, non sa più d’essere nata cavouriana e, sicuramente, si vergogna di dire in giro che i propri successi provengono dai grandi proprietari terrieri, i quali, un tempo, riuscirono pure a risanare il bilancio dello Stato. La sinistra, invece, soffre ormai d’una psicopatologia congenita ereditaria: la gemmazione mitopoietica. Vive perennemente nella proiezione fantasmagorica o fiabesca di sé stessa, in una dimensione dove scuola, sanità e lavoro sono narrate come perfette. Di conseguenza, si divide perennemente per incantesimo, immaginando di diventare magicamente sempre più forte.

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