Lo statuto dei lavoratori e il diritto alla disconnessione

scritto da il 22 Maggio 2020

Post di Elisabetta Calise, HR business partner. Avvocato. Fa parte del board esecutivo della Scuola di Politiche –

Quando l’autunno caldo culminò nella primavera del 20 maggio 1970, si schiusero valori morali e condizioni materiali che andarono ben oltre le relazioni industriali dell’epoca e investirono l’intera società.

Dal confronto regolato tra imprese e lavoratori ne uscirono rinvigorite la nostra economia e la nostra democrazia, attraverso il riconoscimento del valore sociale del lavoro e della sua conciliazione con le ragioni del capitalismo.

Questa settimana ricorrono i 50 anni dall’approvazione dello Statuto dei lavoratori, “la Costituzione che varca i cancelli della fabbrica”, come l’aveva definito Vittorio Foa, e non è mai stato così attuale il dibattito sulla sua capacità di comprendere – nel senso di annoverare ma anche di interpretare – diritti e libertà fondamentali dei lavoratori.

Nei giorni muti dell’emergenza sanitaria legata al Covid-19 le voci più flebili hanno rinvenuto un megafono. L’immagine dei riders in attesa della metro di Milano è diventata il manifesto del lavoro liquido post-industriale.

Logistica e distribuzione, filiera agricola ed alimentare, con i loro lavoratori non subordinati ma nemmeno autonomi, non agili ma nemmeno stanziali, sono state il perno dei bisogni e dei desideri degli italiani, in fila fuori ai supermercati, o nelle gabbie dorate delle loro case, in attesa della consegna prevista tra le ore 10.00 e le ore 13.00.

L’emergenza sanitaria ha portato in superficie molte delle contraddizioni che caratterizzano la struttura occupazionale e le garanzie a tutela del lavoro in Italia. Quello Statuto che faceva dell’operaio – lavoratore subordinato con contratto di lavoro a tempo indeterminato – il riferimento dei suoi articoli, non può oggi non essere riletto alla luce di quel quadro: la banchina, la metro, i riders.

Non sono “I mangiatori di patate” eppure recano con sé tutta la potenza di cui il Legislatore dovrebbe prendere coscienza per rileggere la Carta dei diritti fondamentali dei lavoratori in maniera sincrona con le esigenze di una classe lavoratrice frammentata dal punto di vista contrattuale, politico e produttivo, le cui modalità organizzative sfuggono alle tradizionali definizioni di lavoro.

Il 2020 è quello che un ossimoro cinematografico definirebbe “caos calmo”: mentre intorno a noi nulla si muove e tutto attende o, piuttosto, lentamente riprende, siamo impegnati, perlopiù da casa, a lavorare, elaborare, resistere, in un tempo sospeso tra ricreazione e dovere, reti sociali e relazioni professionali.

Una verità si fa lapalissiana: la tutela della dignità del lavoratore non può essere confinata oggi alla mera salvaguardia della sua capacità prestazionale nel perimetro della fabbrica, ma si estende almeno alla sua città, comunità, famiglia, e in generale alla dimensione della sua elaborazione intellettuale, che non sempre risponde a forme di contratto tipiche, e che spesso tuttavia informa e plasma.

Vita professionale e complessità sociale devono trovare in definitiva una sintesi anche in una più puntuale normativa di dettaglio.

La legge 81/2017 sul lavoro agile in Italia ridisegna il concetto di subordinazione, improntandola a caratteri di flessibilità e autonomia, e tuttavia l’assenza di vincoli di tempo e spazio nell’esecuzione della prestazione lavorativa, che dovrebbe fondare la logica con cui l’istituto nasce – un miglior work-life balance – può rivelarsi un boomerang senza una coraggiosa presa di posizione sul diritto alla disconnessione.

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Una sua disciplina si rinviene, infatti, nel nostro ordinamento, solo in maniera incidentale, proprio nell’art. 19 del testo di legge sul lavoro agile, che stabilisce che l’accordo tra Azienda e lavoratore debba prevedere «i tempi di riposo nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro», e nulla prescrive, tuttavia, circa i criteri mediante i quali assicurare in concreto il diritto a disconnettersi e evitare lo stress da lavoro-correlato, il sovraccarico di incombenze e informazioni, l’assottigliamento dei tempi di riposo.

Se rispettare l’orario di lavoro e non sentire il peso di essere always on con una pronta risposta ad ogni tipo di richiesta provenga da Responsabile, colleghi e collaboratori, è frutto più di un’impostazione culturale che di un dato strumentale, è pur probabile che la prima possa giovarsi di un investimento sul secondo e che a tal fine sia utile restituire la disciplina del diritto alla disconnessione ad una normativa specifica di primo livello.

20 maggio 1970 e 22 maggio 2017 sono due date che val la pena scandagliare per alimentare la coscienza collettiva sulle nuove tendenze del mercato del lavoro e ricordarci quanto può essere altrimenti vuoto l’esercizio commemorativo della storia se finalizzato solo ad una sua musealizzazione.

Twitter @Eli_Calise