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Eccellenze italiane in fuga: EgLa e la miopia finanziaria europea


Post di Giuliano Noci, Professore ordinario di Strategia e Marketing e Prorettore, Politecnico di Milano –
EgLa e l’Europa addormentata: anatomia di un’eccellenza sotto anestesia finanziaria. L’Italia, si sa, è terra fertile di imprese geniali, nate spesso in un garage o in un capannone durante il boom industriale e cresciute a colpi di brevetti e vendite all’estero. Il copione lo conosciamo: intuizione brillante di un manipolo di fondatori, crescita trainata da innovazione continua e penetrazione nei mercati occidentali, poi — raggiunto un certo fatturato — via al gran ballo della finanza straordinaria, tra quotazioni in Borsa e flirt con fondi di Private Equity.
La storia di EgLa non fa eccezione. Anzi, ne è l’incarnazione perfetta. Azienda meccanica d’eccellenza con quartier generale a Baranzate (alle porte di Milano, ma con lo sguardo molto oltre: ha impianti produttivi i in 4 continenti), EgLa è leader nella progettazione e produzione di statori e rotori per motori elettrici — cioè il cuore pulsante della transizione energetica. Multinazionale tascabile, agile, profondamente italiana ma con una supply chain e una clientela globali. Una Ferrari da laboratorio.
Eppure, per accelerare la propria corsa, EgLa ha dovuto stringere un patto con un fondo asiatico: FountainVest, sede a Hong Kong e capitali non cinesi ma globali, ha acquisito il 45,7% dell’azienda (con un premio del 64% nel giorno dell’annuncio e closing previsto nella prima metà del 2026), attraverso un accordo con EMS, la holding della famiglia fondatrice.
Operazione perfettamente sensata sul piano industriale. Ma anche il segnale di una crepa strutturale. Perché EgLa, pur solida, competitiva e tecnologicamente d’avanguardia, non è riuscita a sostenere da sola la propria traiettoria di crescita. Per restare nel gioco, ha dovuto rivolgersi a capitali extra-europei. Il che, al netto dei complimenti di rito, solleva una questione tutt’altro che marginale: e se fosse questo il nuovo copione dell’industria europea? Quello di brillanti eccellenze che per diventare globali devono prima cedere il timone?

Eurogroup Laminations da Baranzate (Mi) veleggia verso Hong Kong. Nella foto: barca nel Porto di Victoria di Hong Kong con lo skyline urbano (designed by Freepik)
La risposta, purtroppo, sta in uno scenario europeo sempre più afflitto da miopia industriale e rigidità sistemica. Primo indiziato? Proprio il settore automotive. Schiacciato tra la transizione elettrica (che non ammette ritardi) e la rivoluzione digitale (che non perdona ingenuità), il comparto frena, mentre Asia e USA viaggiano in corsia di sorpasso. I produttori europei arrancano, accerchiati da concorrenti cinesi iper-aggressivi, da giapponesi metodici e da indiani assetati di capacità produttive europee. Ne è esempio anche il recentissimo passaggio dei veicoli commerciali di Iveco (controllata dalla holding Exor, galassia Elkann-Agnelli) all’indiana Tata, che nel 2008 acquisì Jaguar Land Rover.
Secondo imputato: il sistema finanziario europeo, che oggi somiglia più a una camicia di forza che a un trampolino. Gli investimenti necessari per cavalcare innovazione, intelligenza artificiale e mercati lontani richiedono capitali consistenti e una buona dose di coraggio. Ma l’Europa sembra aver smarrito entrambi. Da una parte le regole di Basilea III (e successive complicazioni) rendono la vita difficile al credito bancario; dall’altra, i fondi di Private Equity europei sono spesso troppo piccoli per finanziare il salto quantico che le imprese oggi devono affrontare.
Risultato? Chi vuole restare competitivo deve, volente o nolente, cercare ossigeno fuori dal perimetro europeo. Fuggire dalla “gabbia” normativa e finanziaria continentale è sempre meno una scelta, sempre più una necessità.
Ritorniamo dunque a EgLa. L’operazione con FountainVest è, alla luce del contesto, ineccepibile. EMS ha fatto bene ad aprire le porte, perché le alternative realisticamente non c’erano. Ma la domanda resta: EgLa riuscirà a mantenere il controllo strategico o finirà — come troppe altre italiane — per perdere il volante in cambio del carburante? Una cosa è certa: l’Europa deve svegliarsi. E farlo in fretta. Perché continuare a essere culla di innovazione, ma incubatrice per altric, rischia di trasformare l’eccellenza industriale del continente in un lontano ricordo. Da museo. O peggio, da catalogo per investitori stranieri.