Moda, lavoro, sfruttamento: cosa possono fare le grandi firme

scritto da il 09 Aprile 2024

Post di Mario Di Giulio* –

Nella tragedia del Rana Plaza in Bangladesh quello che molti non ricordano è che nell’edificio che crollò, causando la morte di 1.138 persone e di 2.600 feriti, non lavoravano solo operai tessili ma anche bancari e impiegati di altre aziende. Quando l’edificio lasciò presagire il suo crollo, però, gli operai tessili furono costretti a lavorare mentre gli altri si salvarono perché vennero esentati dal recarsi al lavoro.

A distanza di venti anni e nonostante la creazione di movimenti volti a rendere etica l’industria della moda con il corollario solito (anche se non necessario) dei professionisti della eticità a chiacchiere, non sembra che molto sia cambiato.

E non bisogna andare in Bangladesh o in altri paesi asiatici, lo sfruttamento avviene sotto i nostri occhi, occhi che non vogliono vedere

A partire dalla giovane donna di Prato morta nel 2021 a causa di un orditoio male assemblato, agli episodi recenti, due in pochi mesi, di sfruttamento lavorativo saliti agli onori della cronaca, la moda continua a mostrare un lato che di etico ha ben poco.

La domanda è come sia possibile e cosa si può fare.

Il lato oscuro dell’industria del fashion

In realtà, anche in questo lato oscuro, l’industria della moda presenta fenomeni affini a quelli di altre industrie, a partire da quella edile che spesso è funestata da numerosi incidenti sul lavoro e dove moltissimi lavoratori lavorano in nero senza le minime tutele.

moda

Ma anche quando siamo in una pizzeria o semplicemente entriamo in un negozio, non siamo mai coscienti se il cuoco o il cameriere siano assunti in regola e, se del caso, per quante ore: basta però chiedere ad amici e conoscenti per sapere che spesso, di fronte a un contratto dichiarato di due ore giornaliere per 5 giorni a settimana, c’è chi lavora 7 giorni su 7 e anche per 10 ore al giorno.

Perché la Moda fa più notizia

Perché allora la moda attira così tanto clamore? Forse è la sua coincidenza con l’effimero e il superfluo o anche a causa della sproporzione tra il valore intrinseco dei materiali e il prezzo di vendita; o forse semplicemente perché la moda rappresenta il come vorremmo farci vedere e non quello che siamo, e una volta posti davanti allo specchio della realtà l’immagine che vediamo non ci piace proprio.

Tornando ai fatti e alle due amministrazioni giudiziarie che hanno colpito grandi firme nell’ultimo periodo con riferimento a fatti avvenuti in Italia (giova ricordarlo), ormai è tutta una gara ad inveire contro, sebbene non sembra vi sia davvero un coinvolgimento diretto dei marchi interessati nello sfruttamento del lavoro asserito dalla magistratura.

Se i brand non possono non sapere

Ma, secondo la magistratura e l’opinione pubblica, i marchi sapevano o dovevano sapere (“non potevano non sapere”), perché le aziende fornitrici in cui si produceva erano oggetto, almeno nel caso della Giorgio Armani Operations, di controlli di qualità.

Prescindendo dalle due questioni reali, c’è da chiedersi se questa conoscenza costruttiva (tanto amata dai legali inglesi nelle loro legal opinion) sia in questi casi pertinente.

E lo dico subito: la mia opinione è “ni’: perché, se il rispetto della normativa sulla sicurezza del lavoro e la salubrità dei luoghi di lavoro si può facilmente accertare con le visite in loco, le paghe effettive non si vedono e teoricamente potrebbero essere versate regolarmente il 27 di ogni mese e reclamate indietro, almeno in parte, il 28, con buona pace dei controlli formali.

Cosa possono fare le grandi firme della Moda

La domanda che dovremmo porci è se i prezzi praticati dai subfornitori siano stati imposti dall’alto e verificarlo, perché – se i prezzi li avessero indicati i subfornitori – nulla assicurerebbe che, anche di fronte a importi doppi o tripli  a quelli realmente pagati, i lavoratori non siano sfruttati.

Probabilmente, basterebbe obbligare le grandi firme ad indicare i fornitori sui propri siti (indicando anche i luoghi di produzione  così facilitando fenomeni di whistleblowing) e dichiarare a fisco e ispettorato del lavoro quantità acquistate e prezzi pagati per le forniture eseguite in Italia.

moda

Ciò faciliterebbe i controlli effettivi a chi sa e può realmente farli (ovvero l’Ispettorato del lavoro).

Una proposta che non sarebbe difficile da realizzare e che forse difenderebbe la reputazione dei grandi marchi, o forse invece scopriremo che il re è nudo perché vende come oro quel che spesso è solo  bronzo.

* insegna fashion law and ethics all’Università Luiss Guido Carli e fa parte del comitato scientifico del master in fashion law. Responsabile Africa Desk dello studio legale Pavia e Ansaldo e professore a contratto di Law of Developing Countries all’Università Campus Bio-Medico di Roma

 

fashion law and ethics alla Luiss