Il dissesto previdenziale italiano, narrato in breve

scritto da il 20 Maggio 2015

Leggo incredulo sul Sole 24 Ore che l’aver concesso per decenni pensioni generose, calcolate col metodo retributivo e per un pugno di anni di contributi, ha generato un costo per lo nostre casse pubbliche di circa 46 miliardi l’anno, e confesso che mai, eppure nelle mie peggiori previsioni, l’avrei immaginato.

In pratica il nostro deficit fiscale corrisponde, se le stime sono esatte, alla somma che paghiamo ogni anno in omaggio alla nostra (im)previdenza pubblica. E mi sembra necessario, stando così le cose, provare a ricapitolare come e perché siamo arrivati a questo punto.

Lo faccio servendomi di un libro assai istruttivo pubblicato qualche anno fa da Maurizio Ferrera ed altri (“Alle radici del welfare all’italiana”, Marsilio) che ha il pregio di svolgere una corposa ricostruzione storica che permette di capire i passaggi fondamentali che hanno condotto all’attuale dissesto pensionistico, che non sarà magari contabile (non solo), come si affrettano a sottolineare in tanti, ma sociale temo proprio di sì.

La prima cosa che noto, leggendo il libro e scorrendo vecchie statistiche nazionali è che l’ossessione per le pensioni data anni lontanissimi da noi, agli anni ’50 addirittura, quando i residenti fino a 5 anni, nel 1951, erano più del 9% del totale della popolazione, a fronte del 6% di sessant’anni dopo, mentre gli ultra 65enni erano poco più dell’8% della popolazione, che all’epoca quotava 47 milioni e 515mila, a fronte del 21% dei 59 milioni e 434mila residenti del 2011.

Ciò malgrado è proprio negli anni ’50 che si piantano i semi velenosi dai quali germinerà il nostro impianto previdenziale e con i quali ancora oggi siamo chiamati a fare i conti. Non serve essere sociologi per capire i guasti che può provocare a una società la tentazione di vincere una pensione alla lotteria. E mi chiedo, mentre scorro le vecchie cronache di quegli anni, che popolo siamo, visto che abbiamo dimostrato con la nostra storia di privilegiare la spesa pensionistica, e per giunta anticipando sempre più l’età del pensionamento, rispetto a qualunque altra forme di welfare, familiare o lavorativo.

La prima norma che diede il via allo sviluppo incrementale del nostro sistema pensionistico risale addirittura al 1950, ma la fase più autenticamente espansiva iniziò pochi anni dopo, mentre in Parlamento si accumulavano decine di proposte di legge per riformare le pensioni.

Come simpatico aneddoto valga quello che ci racconta della legge 55 del 1958, quando già molti danni erano stati fatti.

Poiché si doveva votare, nel febbraio di quell’anno, il 30 ottobre del 1957 il ministro del Lavoro Gui presenta un disegno di legge che si propone di facilitare l’accesso alle pensioni di reversibilità e di aumentare i trattamenti pensionistici di un robusto 22%. La legge viene approvata il 20 febbraio, con importi addirittura superiori a quelli previsti dal governo: a conti fatti le prestazioni aumenteranno del 35-50%.

Sarebbe troppo lungo e anche noioso far qui l’elenco degli importanti provvedimenti presi negli anni ’50 sul fronte pensionistico, frutto di una furiosa quanto incomprensibile (o al contrario chiarissima) fissazione per le pensioni, che come vedete non ci è mai passata.

Ricordo solo la riforma che estese agli agricoli la tutela previdenziale e quindi agli artigiani, che precedette la generale estensioni della tutela agli autonomi. O quella che previde di aumentare il bacino delle cosiddette pensioni quasi-gratis, ossia concesse agli agricoli anche a fronte di un solo anno di contributi. Gestioni strutturalmente deficitarie, quindi, destinate a dispiegare i suoi effetti sulle generazioni a venire.

Nel dettaglio vale la pena raccontare la storia di un istituto che solo la nostra sperimentata fantasia poteva immaginare: le baby pensioni, cui si affiancarono le pensioni di anzianità.

E infatti è proprio negli anni ’50, contrariamente a quanto pensano molti, che nascono le baby pensioni per i dipendenti pubblici, non a caso definite “la più vistosa anomalia del sistema pensionistico italiano” nel libro di Ferrera.

Il governo, guidato da Pella, presentò il 20 ottobre 1953 un disegno di legge per istituire la tredicesima mensilità per gli ex dipendenti pubblici titolari di pensioni ordinarie. Un mese dopo le commissioni avevano già liquidato il provvedimento, che sei giorni dopo venne approvato dall’aula, divenendo la legge 876 del 1953.

Non pago, pochi giorni dopo il governo presentò un disegno di legge delega che si proponeva di emanare nuove norme relative al nuovo statuto degli impiegati civili e degli altri dipendenti dello Stato. Nel testo, però, non c’era alcun riferimento alle pensioni.

La solita manina inserirà il tema durante il passaggio al Senato.

I lavori parlamentari si protraggono, anche a causa del cambio di governo, che adesso vede Scelba alla presidenza del consiglio. Si arriva così al 1955, quando su pressione della Cisl e dopo la fine del governo Scelba, sostituito dal primo governo Segni, l’esecutivo trova la quadratura del cerchio che conduce, nel gennaio 1956, all’emissione di alcuni decreti del presidente della Repubblica che attuano la legge delega.

In particolare, il Dpr 20/1956 previde il diritto dei dipendenti pubblici a ricevere una pensione dopo 25 anni di servizio, ridotti a 20 nel caso di donne coniugate o con prole. Ed eccole qui le nostre pensioni baby, che più tardi, nel 1973, verranno ulteriormente “infantilizzate” portando gli anni minimi di contribuzione a 20 per gli uomini e 15 per le donne.

Sempre con un Dpr, il numero 17, furono introdotte le pensioni di anzianità per i dipendenti pubblici (pensioni di vecchiaia all’età di 65 anni, con 20 anni di contributi, o a una pensioni di anzianità dopo 40 anni di servizio) e il sistema retributivo per il calcolo dell’assegno.

Tale decisione si rivelò gravosissima, sia perché per i dipendenti pubblici vigeva il sistema retributivo, sia perché non era previsto un meccanismo attuariale che aggiustasse le prestazioni sulla base dell’età anagrafica.

La conseguenza fu che la spesa per pensioni, che nel 1955 era poco meno del 25% del totale della spesa sociale, cinque anni dopo arriverà a sfiorare il 30% ( da 270 miliardi di lire circa a 560) e da lì via via crescere fino al quasi 35% del 1970 e all’oltre il 40% del 1980.

E ciò spiega bene perché, considerando i dati relativi agli anni 200-2008, la spesa sociale per vecchiaia e superstiti sia stata del 59,1% della spesa sociale a fronte di una media dell’Ue a 15 di 43,7%, mentre la spesa sociale per le famiglie e i minori siano appena al 4,2% del totale contro una media Ue del 7,8%, per non parlare di quella per la disoccupazione, appena all’1,8% a fronte di una media Ue del 5,7 per cento.

Il succo è chiaro: abbiamo dato precedenza alle pensioni, rispetto a tutto il resto.

Vale la pena riportare quanto scrive Ferrera sulle baby pensioni, ossia che “la più vistosa criticità, sia sul piano finanziario che intra e inter-generazionale sia stata introdotta per decreto in assenza di una approfondita discussione parlamentare”.

Tale deriva proseguì negli anni ’60.

Un bel grafico, che ho trovato nel libro di Ferrera, illustra l’andamento della spesa totale per pensioni fra il 1951, quando era di poche centinaia di miliardi (a prezzi costanti del 1970), al 1977, quando ormai aveva superato i 5.000 miliardi (sempre a prezzi costanti del 1970).

In pratica in un quarto di secolo la spesa a prezzi costanti si è moltiplicata per un fattore di almeno 25, assai più di quanto avrebbe giustificato l’aumento del costo della vita o della demografia.

Se guardiamo le responsabilità politiche, notiamo che le riforme più costose sono state approvate con ampi consensi parlamentari e più tardi sindacali, opposizione compresa, a dimostrazione che il consenso su questa modalità di uso della spesa pubblica è stato pressoché universale. La pensione, insieme con la casa, appartiene alla mitologia dell’essere italiani, a quanto pare.

La lunga parabola espansiva, come la chiama Ferrera, inizia proprio a metà degli anni ’50 e dura almeno un ventennio, trovando nei ’60 l’apice della dissennatezza che i ’70 si incaricheranno solo di consolidare.

Fra il 1955 e il 1975, infatti, le pensioni aumentano di numero al ritmo di oltre 1,5 milioni ogni cinque anni, arrivando a crescere di ben 2 milioni 737 mila unità nel 1970 e di 2 milioni 350 mila nel 1975.

Osservo deliziato che l’ultimo picco di pensioni concesse, pari a 1 milione 229 mila, al livello del 1955, quando fu approvata la riforma degli agrari, si è toccato nel 1995, quando il governo tentò la sua timida riforma contributiva. L’ennesima beffa.

Se guardiamo agli importi, espressi in euro del 2010, notiamo come quello medio del 1955, pari a 1.268 euro 2010, praticamente sia raddoppiato nel 1965, collocandosi a 2.475, per arrivare a 4.125 nel 1975, e a 6.552 nel 1985. In pratica, in trent’anni l’importo medio è aumentato di oltre cinque volte, mentre nei venti anni successivi appena del 51%.

Il dissesto della nostra previdenza, perciò, si consuma nel trentennio fra il 1955 e il 1985, e gli anni ’60 stanno com’è logico che sia, in mezzo.

Per evitare di annoiarvi con i dettagli, ricordo solo che la prima metà degli anni ’60 fu sostanzialmente preparatoria. A parte alcuni aumenti dei minimi concessi ad alcune categorie, che comunque fecero salire parecchio la spesa complessiva, non si segnalano eventi rilevanti. Ricordo pure che già dal 1963 si provò a indicizzare le pensioni. E che risale alla legge 3 agosto 1962 l’abbassamento dell’età pensionabile delle donne a 60 anni, che durerà fino a tempi recenti.

Per apprezzare quanto siano costati questi mini-interventi, basta osservare che fra il 1958 e il 1963, la spesa pensionistica passò da 418 a 870 miliardi, con un’accelerazione nel 1962, quando si passò dai 528 miliardi del 1961 a 768. Il boom dell’economia coincise con quello delle pensioni, insomma, alle quale furono concessi incrementi come mai prima nella storia. Solo che quello dell’economia poi si fermò. Quello delle pensioni no.

In compenso il lavoro propositivo è frenetico. Nella III legislatura, quindi fra il 1958 e il 1963, vengono presentate 211 proposte di legge sulla protezione sociale, 97 delle quali riguardano le pensioni e solo 6 la disoccupazione, che a mio modesto avviso spiega meglio di ogni altro argomento cosa sia il nostro paese.

Ma il punto di svolta avviene nel 1965, quando fu varata la legge 903, ennesima grande riforma incrementale del sistema, che fra l’altro istituì le pensioni di anzianità per i dipendenti privati, con 35 anni di anzianità; seguì a quella del 1956 che l’aveva istituita per i dipendenti pubblici insieme con l’introduzione del sistema retributivo, sistema di calcolo che durerà fino alla riforma Dini del ’95.

Ma non accadde solo questo. La legge del ’65 mise la base della pensione sociale, all’epoca individuata come il trattamento pensionistico minimo per tutti i lavoratori. Quindi non equivale a quella che conosciamo oggi, ma è un po’ la sua progenitrice.

L’anno successivo fu estesa la tutela ai commercianti, ma soprattutto si preparò il clima per l’ultimo grande intervento incrementale, che si verificherà nel bel mezzo delle contestazioni operaie e studentesche, in un clima intriso della retorica dei diritti e del tutto gratis a tutti, preparatorio della grande abbuffata degli anni ’70.

La riforma del 1965 prevedeva l’esercizio di una delega che però non venne esercitata nel tempo di due anni previsto.

Il governo, dopo un’ampia negoziazione con i sindacati decise di rivedere il contenuto della delega e così arrivò al Dpr 488 del 1968 che previde l’ennesimo aumento di spesa pensionistica. Oltre all’aumento dei minimi, si decise anche l’introduzione del sistema retributivo nel settore privato, anche se ancora in forma diluita.

Il governo provò anche a fare un passo indietro sulle pensioni di anzianità, che oltre ad essere l’ennesimo unicum italiano, avevano provocato 170 miliardi di spesa aggiuntiva solo nel primo triennio di approvazione, e riuscì persino a cancellarle, fra gli strepiti dell’opposizione.

La Cgil reagì duramente aprendo una vertenza pensione. Il clima dell’epoca favorì la mobilitazione e il governo cedette su tutta la linea.

Il governo, guidato da Mariano Rumor realizzò quel “grande accordo spartitorio con il quale si conclude la fase di più robusta espansione del sistema pensionistico italiano”, chiosa Ferrera.

Con la legge 153 del 1969 le molte richieste dei sindacati vengono accolte, fra le quali l’indicizzazione delle pensioni in corso al costo della vita e il rafforzamento del ruolo dei sindacati dentro l’Inps. Fra l’altro viene adottata la pensione sociale, come la conosciamo adesso, e vengono reintrodotte le pensioni di anzianità che solo con la riforma Fornero del 2012 sono state abolite.

L’impostazione di base, generosa, deficitaria e inguale, non muta negli anni successivi.

Nel 1975 le pensioni superiori al minimo vengono indicizzate alla crescita delle retribuzioni nel settore industriale. Nel 1976 vennero concessi ai dipendenti pubblici sistemi di calcolo per il retributivo più generosi. E ancora nel 1990 si arrivò a istituire il calcolo retributivo per le pensioni del lavoro autonomo assicurate presso l’Inps. Come se il bengodi non dovesse finire mai.

E infatti non finì, neanche nel 1992.

Per qualcuno dura ancora.

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