Un governo dell’ignoranza e della correzione? Forse ce lo meritiamo

scritto da il 07 Dicembre 2018

L’attuale maggioranza di governo ha un che di epico: non lo si può negare. Le gesta dei suoi membri appartengono ormai a una narrazione fantastica che le generazioni future difficilmente sapranno spiegare e riferire. Paola Taverna esorta la gente a non vaccinarsi; Luigi Di Maio dichiara di potere abolire la povertà con una manovra; Danilo Toninelli è convinto che molti usino il tunnel del Brennero; Laura Castelli, dallo spread alle tessere, si mostra fiera della propria incultura e della propria disinformazione, riempiendo la tv di gaffe; Marco Bussetti, un ex professore di educazione fisica, fa fuori Roberto Battiston, un fisico sperimentale, e tutti noi ci stiamo ancora interrogando sui motivi della scelta; Dino Giarrusso, uno che di università e ricerca sa poco o nulla, diventa direttore dell’osservatorio sui concorsi nell’università e negli enti di ricerca; Mario Pittoni, cioè il presidente della commissione istruzione al Senato, ha la terza media e… ci fermiamo qui perché rischiamo di trasformare il testo in un’agghiacciante elencazione.

Il capo del governo, Conte, con i vice Di Maio e Salvini

Il capo del governo, Conte, con i vice Di Maio e Salvini

Molto probabilmente, alcuni di loro sono stati costretti ad abbandonare gli studi per rendere un servizio al paese. La dispersione scolastica, in questo caso, sarebbe giustificata dalla nobiltà della causa. Però, non è solo una questione di titoli, intendiamoci! C’è molto di più. L’esperienza di gestione e amministrazione, per esempio, può essere considerata un requisito? Forse, non più. In un contesto leggendario e paradossale, certe connotazioni non servono, anzi possiamo affermare che quanto sta accadendo corrisponde alla più alta espressione di coerenza della nostra storia recente. Provocazioni e null’altro? Basta consultare il data navigation tree di EUROSTAT, un ricchissimo corpus di dati statistici, per capire che un paese la cui trama è simile a quella de L’Opera da tre soldi di Brecht non può meritare altra sorte.

La prima ricerca che prendiamo in esame è intitolata population by educational attainment level, sex, age and degree of urbanisation. Il sottotitolo è ancora più preoccupante: less than primary, primary and lower secondary school. O meglio: non sarebbe preoccupante, se ci rifiutassimo di conoscere i numeri. In pratica, in questa speciale classifica, in cui vincono coloro che hanno un basso livello di istruzione (“meno della scuola primaria, primaria e secondaria inferiore”) l’Italia guadagna un ‘dignitosissimo’ quarto posto col 40,9%, dietro solo alla Turchia (63,4%), al Portogallo (51,7%) e a Malta (45,6%). Abbiamo perso il podio per un soffio. E abbiamo il coraggio di lamentarci per l’assenza ai mondiali! Al contrario, quali sono i paesi coi migliori risultati? Germania (19,8%) e Francia (25,3%). Dunque: l’improvvisazione e le fantasticherie di un governo sono solo la materializzazione di un’antica profezia o, per i crudi realisti, qualcosa che, prima o poi, sarebbe dovuto accadere.

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Lungo il continuum di questa indagine incontriamo un’altra categoria: young people neither in employment nor in education and training by sex, age and degree of urbanisation. Si tratta, in altre parole, di coloro che, dai 15 ai 34 anni, proprio non ne vogliono sapere: né lavoro né formazione, eccezion fatta per chi, a causa d’un qualsivoglia disagio, non può permettersi alcunché. Questa volta, l’Italia sale sul podio e si piazza al terzo posto con un ‘brillante’ 25%, battuta dalla Macedonia (32,5%) e dalla solita performante Turchia (29,1%).

Si può cominciare a pensare, allora, senza temere di eccedere in deduzioni, che dalle nostre parti manchi proprio l’istinto della conoscenza, una sorta di spinta naturale alla curiosità, che, adesso, viene legittimata politicamente, istituzionalizzata, per così dire, e consacrata quale opportunità, sebbene non sia chiaro in che cosa si possa esplicitare quest’opportunità. Non è affatto sorprendente, a questo punto, che un altro rilevamento statistico di EUROSTAT, quello che riguarda l’uso di internet per l’interazione con la Pubblica Amministrazione (“individuals using the internet for interaction with public authorities”) ci confini ai margini dell’Europa che conta.

Si fa un gran parlare di Danimarca e Svezia per i loro modelli di stato sociale, ma si dimentica che, in Danimarca e in Svezia, rispettivamente, l’89% e l’84% dei cittadini usa internet per dialogare con le istituzioni. Seguono l’Estonia (78%), la Francia (68%) e la Germania (53%). L’Italia si ferma al 25% di utenti attivi; la qual cosa fa sorgere parecchi dubbi in merito ad alcune essenziali questioni di macroeconomia perché è risaputo – solo per fare un esempio eclatante – che l’innovazione tecnologica genera investimenti, laddove gli investimenti fanno crescere lo stock di capitale e stimolano, in seconda battuta, i consumi. I consumi, a propria volta, portano alla creazione di posti di lavoro. La semplificazione è ovvia, ma è altrettanto evidente, nello stesso tempo, che l’innovazione tecnologica è preceduta dalla conoscenza e della formazione.

L’Italia è come un cane che si morde la coda.

Se poi vogliamo parlare dell’assegnazione dei terreni agricoli alle famiglie in cui nasce il terzo figlio, allora ciò significa che siamo pronti a distruggere tutti i possibili modelli di crescita… non perché il settore primario non meriti l’attenzione d’un esecutivo, ma perché, di fatto, la produttività e la competitività non si possono creare ‘per decreto’. Non è un caso, di conseguenza, che la fotografia dell’economia reale continui a rivelare forme di disagio.

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Nella sezione inability to make ends meet dello stesso apparato, che documenta l’incapacità di far quadrare i conti, andiamo ben oltre i valori fatti registrare da Germania (2.1%) e Francia (4,1%) e guadagniamo l’8,6%. La tragedia, questa volta, investe la Grecia, dove il 39,9% delle persone non è in grado, per l’appunto, di arrivare alla fine del mese, sebbene molti altri paesi stiano peggio di noi.

Il dato cresce per noi e così pure l’apprensione, quando studiamo il grave tasso di deprivazione materiale (“severe material deprivation rate”) e apprendiamo che il 10,1% della popolazione versa in condizioni critiche. Morale della favola: un italiano su dieci è povero. Non è così in Germania (3,4%) né in Francia (4,1%). Il dato circa la povertà in Italia è ormai piuttosto diffuso. Non si dice, però, che povertà e incultura, molto di frequente, vanno di pari passo.

Nel 2017, secondo l’ISTAT, il 14% dei 18-24enni ha abbandonato gli studi, facendo crescere il tasso di abbandono scolastico. Solo il 18,7% degli italiani possiede un titolo terziario, laddove la media europea è quasi il doppio (31,4%). Qualcuno potrebbe obiettare che i paragoni con gli altri paesi sono eccessivi e, talora, impertinenti, ma chi lo facesse dimostrerebbe di non sapere che una quota del PIL è fatta proprio di scambi con l’estero.

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A proposito di statistiche nostrane, l’ISTAT, com’è noto, ha pubblicato (30 novembre, come fosse storia vecchia ormai) un report sui conti economici trimestrali, denunciando una contrazione dell’0,1% del PIL destagionalizzato, cioè corretto al fine di evitare le fluttuazioni, procedura, questa, che si adotta in molte indagini statistiche. Ciò che più conta, tuttavia, è riportare fedelmente un frammento del documento in questione: “Si tratta del primo calo dell’attività economica dopo un periodo di espansione protrattosi per 14 trimestri”. Aggiunge il redattore: “La flessione, che segue una fase di progressivo rallentamento della crescita, è dovuta essenzialmente alla contrazione della domanda interna (…)”.

Per correre ai ripari un governo di persone mediamente ‘adeguate’ dovrebbe puntare alla riduzione del saggio di risparmio, così da far ripartire subito i consumi. Ma qui torna a farsi schiacciante il fenomeno culturale o – meglio – il fenomeno di chi, gialloverde, persegue una politica di consensi deculturando. La disoccupazione tra i giovani è arrivata al 32,5%, anche se non è da meno la disoccupazione generale, che ha toccato il 10,6%.

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Matteo Salvini, però, è in pace con sé stesso e ci tiene a far sapere che la “manovra non è ancora stata approvata”. In pratica, quest’uomo – evviva il suo ottimismo! – continua a fare promesse, ma trascura le dichiarazioni del suo sodale. Di Maio, infatti, è “contento che con i dati dell’ISTAT di oggi si certifica (l’indicativo è suo) un aumento di decine di migliaia di contratti stabili”.

Se l’uno ha ragione, l’altro ha torto. Gli espedienti linguistici possono reggere fino a un certo punto, specie se la strategia di comunicazione non è ben concordata. Vogliamo essere puntigliosi? Neanche tanto, in fondo: se davvero dovessimo parlare dei punti di forza della manovra del balcone, cioè di pensioni e reddito di cittadinanza, di certo non potremmo farlo onestamente. Perché? Perché nessun membro del governo ha mai detto chiaramente come saranno strutturati. Forse, a pensarci bene, ce lo siamo meritato (…questo governo)! Troppo impreparati per evitarlo.

Twitter @FscoMer

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