Tre “dettagli” del memorandum italo-cinese di cui ci siamo dimenticati

scritto da il 10 Aprile 2019

L’articolo è cofirmato da Paolo Corbetta, classe 1992, ha studiato scienze politiche alla Università Statale di Milano e poi International Relations and Security alla Westminster University a Londra. Si occupa di relazioni internazionali e lavora alla stesura di un romanzo.

Si è concluso da alcune settimane il viaggio diplomatico che ha portato il presidente cinese Xi Jinping in Italia, dove ha avuto modo di firmare insieme al Presidente del Consiglio Conte un memorandum d’intesa tra la Cina e il nostro paese. Sebbene le finalità dichiarate del governo italiano siano di natura unicamente economica, l’adesione italiana al progetto della “Nuova via della seta” (o Belt and Road Initiative – Bri) potrebbe generare conseguenze rischiose per il nostro paese, di gran lunga superiori agli effetti negativi di un semplice trattato commerciale.

La Bri, infatti, comprende intese generali su diversi livelli, spesso con implicazioni geopolitiche rilevanti. Ciò non significa voler trascurare la componente economica dell’accordo: si stima che siano state siglate intese per un valore di circa 2,5 miliardi di euro, a fronte di uno scambio commerciale che ammontava nel 2017 a circa 21 miliardi di export e 30,5 miliardi di import. È necessario considerare entrambe le dimensioni, economica e geopolitica: molti hanno scritto commenti – spesso critici – rivolti al memorandum di intesa con la Cina. Tuttavia, ci sono tre punti fondamentali che finora non sono stati trattati con la necessaria rilevanza, ma che risultano essenziali per comprendere i potenziali rischi che corre l’Italia nell’aderire alla Bri: il mancato stato di diritto in Cina, la strategia egemonica e la corruzione pervasiva. Un fattore a parte è poi lo sviluppo di infrastrutture digitali: nonostante le rassicurazioni, nel memorandum è presente il riferimento alle telecomunicazioni, e quindi anche al 5G. Un settore strategico per l’Italia, snodo di cavi sottomarini tra Europa, Medio Oriente e Africa. Un tema su cui però già in molti si sono spesi, e che non affronteremo.

Figura 1 – Scambio commerciale tra Italia e Cina

cattura

Fonte: Eurostat;

Il (mancato) stato di diritto

Il primo elemento da tenere in considerazione, e spesso dimenticato, nelle trattative con la Cina è il concetto di stato di diritto (o Rule of Law) che vige nella cultura politica e istituzionale cinese. Nella tradizione occidentale, tale principio afferma che è il diritto, e non l’arbitrio di chi è al comando, a governare uno stato. Ebbene, nonostante lo stato di diritto sia stato definito come “fattore fondamentale per la crescita del Paese”, è opinione condivisa che in Cina il controllo sullo stato – e dunque sulla legge – da parte del partito comunista sia assoluto. Il potere giudiziario non è indipendente e posto sullo stesso piano del potere esecutivo, ma ricade in una chiara posizione di sudditanza. Ne consegue, quindi, che fare affari con le imprese cinesi non è come condurre trattative con le aziende di paesi occidentali: anche le aziende cinesi devono rispondere allo stato per quel che riguarda la gestione dei propri affari, o comunque piegare le proprie strategie alle necessità del governo. Per Pechino, infatti, il potere economico è al servizio dell’interesse nazionale (si vedaLa Cina e la nuova via della seta”, di Antonio Selvatici, 2018). Tale cultura si rispecchia, poi, anche nelle relazioni internazionali cinesi, proiezione degli stessi principi applicati in ambito domestico. Questo ha importanti implicazioni per il rispetto degli accordi presi con paesi esteri e per il rispetto dei diritti civili, tra cui per esempio la libertà di culto o di stampa. Anche per queste ragioni, a oggi la Cina è classificata 82° su 126 paesi nell’indice di Rule of Law del World Justice Project.

Guerra senza limiti, la strategia egemonica cinese

Un secondo elemento dimenticato dal dibattito italiano è l’obiettivo della Bri. Data questa relazione di chiara subalternità tra le aziende e il potere politico cinesi, si capisce come , nelle sue quattro direttrici – polare, digitale, marittima, terrestre – la Bri rappresenti la concretizzazione di un’espansione pacifica e sommessa, ma inarrestabile. La Cina offre qualcosa che pochi hanno e che i vari paesi sulla sua strada – perlopiù economicamente e politicamente fragili, o fortemente indebitati – vogliono disperatamente: infrastrutture e abbondanti fondi a buon mercato.

Come un giocatore di scacchi, Pechino ha saputo sfruttare al meglio le debolezze di partner e avversari, infilandosi nei loro tessuti sociali, politici ed economici, approfittando di ogni occasione sullo scenario internazionale per aumentare la propria influenza. Adesso, si dimostra pronta a realizzare l’incubo strategico statunitense: unificare l’Eurasia, legarla all’Africa, dare vita all’isola-mondo concettualizzata nel 1919 da Halford John Mackinder. Infrastrutture, diplomazia del debito, acquisizioni strategiche, spionaggio, negoziati bilaterali o insieme a gruppi di stati più deboli: queste le strategie che stanno permettendo all’Impero di Mezzo – soprattutto in Asia e in Africa – di espandere la propria influenza senza sparare neppure un proiettile. Anzi, paradossalmente, permettendo agli europei di sentirsi al sicuro, per quanto Bruxelles stia iniziando a considerare la Bri come la strategia di espansione meglio strutturata della storia recente. Perché per la Cina, maestra della unrestricted warfare, ogni dimensione è un campo di battaglia, e ogni strumento un’arma.

L’Italia è caratterizzata da alto debito, crescita asfittica, burocrazia invadente, diffusa corruzione e un esecutivo alla continua ricerca di fondi per finanziare le proprie misure e che non reagisce al proprio declino demografico: il paese perfetto al quale mirare con questa strategia, anche a livello simbolico. Anche perché, se si guarda agli investimenti e alle ramificazioni di Pechino in Germania, nel Baltico, in Europa centro-orientale e nel Mediterraneo, si profila il dubbio che il nostro paese diventi solo un punto di smistamento per le merci cinesi. Sarebbe un grave errore, infatti, guardare al memorandum come a un puro accordo italo-cinese, senza abbracciare tutto il contesto regionale. Infatti nei porti nostrani arriverebbero tonnellate di merci cinesi da far lavorare in Italia e rivendere, poi, come Made in Italy, aumentando così la concorrenza verso i nostri produttori. Però attenzione: se il mercato dell’Europa occidentale viene servito tramite la Germania e i paesi baltici (già interessati da una delle parti terminali della Bri), allora la penisola si rivolge, con queste tonnellate di merci, a est e a sud. Tuttavia, a sud la Cina sta investendo pesantemente anche in Egitto, Algeria e Tunisia, paesi che hanno già aderito alla BRI e a est vi è già il porto greco del Pireo, di proprietà cinese tramite la società Cosco. Il rischio è quindi di finire sommersi di merci cinesi, usati come punto di smistamento verso altre regioni, ma di non riuscire ad accrescere significativamente il nostro export, visti anche i molteplici casi di mancato rispetto della proprietà intellettuale da parte della Cina. E come possiamo notare in Sri Lanka, in Pakistan, in Africa, quella che è stata chiamata “trappola del debito è sempre dietro l’angolo quando si negozia con Pechino.

Corruzione e trasparenza, tra Italia e Cina

Terzo elemento che è rimasto in secondo piano nelle scorse settimane è la pervasività della corruzione, in Italia come in Cina. Secondo il ranking sulla corruzione percepita rilasciato annualmente da Transparency International, Pechino ottiene un punteggio di 39/100 e Roma di 52/100, in una scala che va da 0 (molto corrotto) a 100 (non corrotto). Diversi sono i casi di affari condotti in maniera torbida anche lungo il tracciato della Bri, dove la Cina ha usato la pratica della corruzione per realizzare progetti di interesse. Una criticità da non sottovalutare nell’analisi del memorandum, dunque, è proprio la possibilità che si verifichino casi di corruzione e scarsa trasparenza nello sviluppo dei rapporti italo-cinesi. Non aiuta, inoltre, il fatto che il testo dell’accordo è in diverse parti elusivo. Un esempio significativo è il seguente: da parte italiana si è sempre ribadito che il 5G è escluso da qualsiasi progetto; da parte cinese, nello stesso memorandum, si parla invece di telecomunicazioni, senza specificare se il 5G sia incluso o meno. Un’ambiguità pericolosa, vista l’importanza dell’argomento.

Per quanto riguarda la questione della trasparenza, in un contesto in cui una media potenza come l’Italia si trova a confrontarsi con la seconda potenza mondiale, sarebbe preferibile stipulare accordi particolarmente chiari. Anche perché, qualora sorgesse un conflitto su un determinato punto del memorandum, è difficile pensare che la piccola Italia possa reggere l’urto della grande e poco democratica Cina. Per quel che concerne invece il problema della corruzione, vi è il dubbio che, in un paese farraginoso come l’Italia, i cinesi possano adoperarsi per oliare gli ingranaggi.

Conclusioni

In sintesi, l’appoggio alla Bri presenta numerose criticità legate all’espansionismo cinese, senza comportare significativi vantaggi economici. Tale espansionismo va osservato con circospezione, specialmente alla luce della scarsa trasparenza con cui la Cina gestisce i propri affari, ai rischi concreti di dar luogo a casi di corruzione o di perdere il controllo di infrastrutture strategiche per la sicurezza nazionale. Resta infine la questione dell’isolamento diplomatico dai nostri alleati storici. I benefici che potrebbero scaturire da intese economiche con la Cina sono un’occasione che vale la pena non perdere, ma una strategia come quella francese (30 miliardi di euro di accordi senza la firma di alcun memorandum) o tedesca (che ha rapporti intensissimi da anni senza la firma di alcun memorandum) poteva essere un’alternativa preferibile alla firma del memorandum di intesa. Inoltre, un approccio europeo alla questione sarebbe più utile per garantire un certo livello di reciprocità e garanzie, visto il peso specifico maggiore dei 28 paesi.

Viviamo in un’epoca di transizione e terminato il bipolarismo Usa-Urss e una breve fase di egemonia statunitense, eccoci in una nuova fase, in cui la Cina cerca in misura crescente di accrescere il suo ruolo di player globale. Più o meno pacificamente, mai ricorrendo al conflitto aperto (finora), il gigante cinese mira ad ampliare la propria sfera di influenza. Tale espansionismo comprende rischi e opportunità: stringendo accordi con Xi Jinping, l’Italia farebbe a ricordarsi anche dei primi.

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