La crisi di Schengen è la fine dell’Unione monetaria per come l’abbiamo conosciuta?

scritto da il 05 Febbraio 2016

Pubblichiamo un post di Hans-Helmut Kotz, visiting professor di economia alla Harvard University e senior fellow presso il Center for Financial Studies della Goethe University –

NELL’AREA SCHENGEN SIAMO ALLA RESA DEI CONTI

di Hans-Helmut Kotz

Il sogno a lungo accarezzato di un’Europa senza frontiere, diventato realtà alla metà degli anni Novanta, sta rapidamente svanendo. L’Italia sta ostacolando la decisione dell’Unione europea di corrompere la Turchia con dei fondi affinché impedisca ai rifugiati di attraversare il Mediterraneo per raggiungere la Grecia, prima tappa del loro viaggio alla volta di Germania, Svezia o altri paesi del Nord Europa. In reazione a ciò, il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble ha invitato alla solidarietà, avvertendo che in caso contrario le guardie di frontiera potrebbero ben presto tornare al loro posto, a cominciare dalla frontiera tra Germania e Austria.

Certo, la dissoluzione del Trattato di Schengen, che a partire dal 1995 ha istituito la possibilità di viaggiare all’interno di buona parte dell’Ue senza dover presentare il passaporto, non segnerà necessariamente la fine del progetto europeo, quanto meno   in linea di principio. Dal punto di vista economico, i controlli alle frontiere funzionano proprio come imposizioni; interferiscono con l’attività facendo salire i costi di transazione e riducendo i flussi transfrontalieri di beni e servizi. Senza di essi – e, cosa più importante, con una valuta unica – un mercato è più efficiente.

Ciò non vuol dire, ovviamente, che il mercato unico non possa lavorare come si deve anche con i controlli alle frontiere o valute multiple. Significa soltanto che il processo di “ri-nazionalizzazione” comporterebbe spese assai ingenti, sotto forma di una produttività sostanzialmente ridotta e di una produzione significativamente inferiore.

Tenuto conto di queste spese, il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker ha sottolineato che “sopprimere” Schengen vorrà dire mettere a repentaglio  l’obbiettivo fondante dell’Ue di “un’unione ancora maggiore” – obbiettivo che, come è risaputo, è stato sottoscritto da molti membri dell’Unione soltanto con estrema riluttanza. Il Regno Unito è il paese più scettico al riguardo, e quello che si fa più sentire, ma Polonia, Ungheria, Slovacchia e buona parte dell’Europa Orientale non sono mai state entusiaste all’idea di distogliere la loro concentrazione dalle prerogative nazionali. La crisi dei rifugiati ha messo ancor più sotto i riflettori questo forte dissidio.

Di conseguenza, la rete fittamente intessuta di interdipendenze in Europa sta iniziando a sfilacciarsi. La benefica egemonia, un tempo formata dal duo Francia-Germania, è assente. Prende sempre più piede l’attenzione per le questioni più strettamente nazionali (e in alcuni luoghi, come in Catalogna e in Spagna, regionali), in linea con gli incentivi dei dirigenti politici, gli elettorati dei quali sono per l’appunto nazionali o regionali. Sotto questa luce, l’invito del  primo ministro italiano Matteo Renzi a un do ut des – un allentamento delle regolamentazioni fiscali in cambio dell’accettazione dell’accordo con la Turchia – è assolutamente comprensibile. Tuttavia, spinge l’Ue verso un declivio sdrucciolevole.

Il paradosso, in tutto questo, è che la Germania – considerata implacabile durante la crisi del debito sovrano (e privato) europeo – adesso invita alla solidarietà. Appoggiata da altri creditori europei del Nord, la Germania ha ininterrottamente applicato i suoi principi fiscali, malgrado le conseguenze sistemiche per coloro che ne erano messi sotto pressione (Grecia e Spagna, per esempio, oggi hanno governi diversi da allora). Se le politiche di aggiustamento sono riuscite o meno ad avere successo è tuttora argomento di accesi dibattiti. Indubbio, invece, è il fatto che hanno creato un gran numero di perdenti – in maggioranza, in particolare, tra i più vulnerabili, che ormai percepiscono l’identificazione della Ue con la Germania come qualcosa di minaccioso.

Su tale sfondo, i partiti anti-establishment di tutta Europa si oppongono alle politiche che riflettono questo criterio ispirato dalla Germania. Ciò spiega, per esempio, la somiglianza in Francia tra le piattaforme economiche proposte dall’estrema sinistra e dall’estrema destra. Perfino i partiti mainstream avvertono la pressione ad alimentare  questo sentimento eversivo; difendere le proposte politiche dell’Ue è un metodo infallibile per perdere un’elezione.

Ciò spiega il motivo per il quale, mentre la Germania fatica a occuparsi di circa 1,5 milioni di rifugiati, l’invito di Schäuble alla solidarietà stia in pratica cadendo nel vuoto. Tutti, a iniziare dalla Francia, si tirano indietro.

È arrivata la resa dei conti.

La condivisione degli oneri – ossia un’ “equa ripartizione dei rifugiati in tutta l’Ue (da sviscerare fino in fondo politicamente) – sembra essere un sogno irrealizzabile.

Dal punto di vista economico, accogliere i rifugiati sarà per un bel po’ una sfida non indifferente. Nel caso in cui, però,  si adottasse una prospettiva sul lungo periodo, assorbire i nuovi arrivati dovrebbe essere considerata un’opportunità, a patto di gestire il tutto in maniera adeguata. Nel frattempo, in ogni caso, non soltanto la Germania, ma anche la Svezia, i Paesi Bassi, l’Austria e altri paesi ancora, si stanno scontrando contro  ciò che si ritiene politicamente fattibile. Ciò implica che non ci si deve attendere nessuna risposta pan-Ue, e quindi che molto verosimilmente Schengen avrà un infausto destino.

Per i cittadini europei questa sarebbe ben più di una semplice perdita simbolica. E, naturalmente, erigere di nuovo le frontiere nazionali non aiuta a risolvere le questioni sottostanti. I rifugiati saranno semplicemente rispediti in Grecia, l’anello più fragile e vulnerabile dell’intera catena.

Per quanto sconfortante ciò possa suonare, dobbiamo adesso prendere in considerazione la prospettiva della fine dell’Unione Monetaria Europea e dell’Ue per come le abbiamo conosciute. L’obbiettivo non è soltanto quello di mettere in luce le opportunità sprecate associate a un simile risultato, in quanto queste sarebbero chiaramente quantificabili, specialmente se si dovesse abrogare la moneta unica. Il punto è anche far vedere che stanno venendo meno le condizioni minime perché l’Ue e la zona euro funzionino nella loro forma attuale.

Di gran lunga ai primi posti tra queste condizioni sono la diagnosi condivisa dei problemi dell’Ue e una filosofia comune. Renzi e Schäuble, per esempio, hanno idee incredibilmente contraddittorie al riguardo di tematiche cruciali, dalla politica fiscale al settore bancario. Renzi critica l’Ue e al contempo senza esitazione addossa alla Germania la responsabilità delle conseguenze delle nuove regole europee per il bail-in. Per lo stesso motivo, il presidente francese François Hollande mette al primo posto la sicurezza interna (forse in linea con le preferenze del suo elettorato), e onora soltanto saltuariamente le regolamentazioni fiscali. Non giova il fatto che, applicando le proposte tedesche o dell’Ue in tema di politica per i rifugiati, non si rafforzeranno le sue probabilità di essere rieletto nel 2017.

Se gli stati membri dell’Ue intendessero perseguire il loro illuminato interesse promuoverebbero un’unione ancora più stretta, fiscale e non solo, tra Nord e Sud. Invece, stanno sempre più considerando l’Europa un capro espiatorio e abbracciano un’ottica nazionale. Ancora una volta, l’Europa pare dirigersi come una sonnambula verso una crisi. Non resta che sperare che questa volta si svegli in un luogo più sicuro di quello nel quale si è svegliata in passato.

© Project Syndicate 1995–2016

(Traduzione di Anna Bissanti)