Egregio Criscuolo, prenda esempio da Donato Menichella

scritto da il 10 Giugno 2015

Dopo aver letto le dichiarazioni al Corriere del presidente della Corte Costituzionale Alessandro Criscuolo, mi sono chiesto se sia il caso di invitare i giudici della Consulta a tornare tra gli umani. Due sono le affermazioni che mi hanno colpito. La prima: “Se una legge è anticostituzionale, non possiamo fermarci se la nostra decisione provoca delle spese”.

La spesa pensionistica aggiuntiva, mi permetto di ricordare, supera i 30 miliardi. Tant’è. Come dire, se poi bisogna aumentare le imposte all’80% del reddito e far scappare le imprese dal territorio italiano, a noi della Corte non interessa. Se l’Italia va in default, come ha rischiato di andare a fine 2011, e quindi non si riuscirebbero neanche gli stipendi pubblici, per noi è irrilevante.

Criscuolo sottolinea anche che la Corte non fa parte della casta: “Questa non è Paperopoli”. E il segretario generale Carlo Visconti, carte alla mano, illustra che lo stipendio del giudice costituzionale è di 360 mila euro lordi – “netti fanno molto meno: 12.618 euro al mese”, precisa – contro i 200 mila dollari dei giudici della Corte Suprema.

Segnalo che il presidente dell’INPS, il professor Tito Boeri, prende 103 mila euro l’anno, ritenuti da lui stesso “uno stipendio elevato”.

“Noi qui stiamo facendo una spending review all’osso”, dice sempre Visconti. Ma in quale film? Come ha documentato il professor Roberto Perotti al presidente emerito in pensione – bastano 9 anni di contributi per i giudici costituzionali per avere la pensione – la fiscalità generale deve pagare anche il telefono di casa. C’è un limite alla dignità?

Caro Criscuolo, la prego di andare a rileggersi cosa fece il Governatore della Banca d’Italia Donato Menichella (1948-1960).

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Ecco il racconto del figlio Vincenzo: Mio padre era uno «specialista dell’autoriduzione». Autoridusse il suo stipendio nell’anteguerra a meno della metà. Non ritirò, quando fu reintegrato all’IRI, due anni e mezzo di stipendio; al presidente Paratore rispose: «Dall’ottobre 1943 al febbraio 1946 non ho lavorato!». Fissò il suo stipendio nel dopoguerra a meno della metà di quanto gli veniva proposto; lo mantenne sempre basso. Se il decoro del grado si misura dallo stipendio, agì in modo spudoratamente indecoroso! Il 23 gennaio 1966, al compimento del settantesimo anno, chiese ed ottenne che gli riducessero il trattamento di quiescenza, praticamente alla metà, giustificandosi così: «Ho verificato che da pensionato mi servono molti meno danari!».

Ai figli ha lasciato un opuscolo dal titolo: «Come è che non sono diventato ricco», documentandoci, con atti e lettere, queste ed altre rinunce a posti, prebende e cariche. Voleva giustificarsi con noi: «Vedete, i denari non me li sono spesi con le donne; non ci sono, e perciò non li trovate, perché non li ho mai presi!» (P. Baffi, A. C. Jemolo, Anni del disincanto, a cura di B. Piccone, Aragno editore, p. 60-1).

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