Quando gli imprenditori erano classe dirigente: Alessandro Rossi (1819-1898)

scritto da il 31 Luglio 2018

Questo è il primo di una serie di post firmati da Giorgio Roverato, studioso senior dell’Università di Padova, dove ha a lungo insegnato Storia economica e Storia dell’impresa – 

La nostra è un’epoca in cui, giustamente, ci si lamenta del dilettantismo di un ceto politico che fatica ad essere classe dirigente. E a volte ad esso contrapponiamo una indistinta “società civile”, per definizione ritenuta migliore: peccato che anch’essa, fatta magari di stimati professionisti o di bravi imprenditori, tutte persone “del fare”, non riesca ad esprimere una vera leadership morale.

Il che riporta a un passato lontano, quando invece non pochi esponenti del mondo produttivo o delle professioni liberali riuscivano a concorrere con energie, competenze e passione alla guida del paese: uno di questi fu Alessandro Rossi, industriale di seconda generazione. Egli non solo trasformò negli anni ‘60 dell’800 l’azienda paterna – il Lanificio Francesco Rossi, con sede a Schio, nel vicentino – nella più rilevante impresa manifatturiera italiana, tale rimasta fino alle soglie degli anni ‘90, ma fu anche protagonista di primo piano nella modernizzazione dello stato unitario, battendosi dal suo seggio senatoriale a sostegno del processo di industrializzazione, fortemente osteggiato dalla grande possidenza fondiaria.

Alessandro Rossi in un momento di relax in famiglia

Alessandro Rossi in un momento di relax in famiglia

Eletto deputato di Schio dopo l’annessione del Veneto all’Italia, Rossi pose fin da subito alla Camera, reiterandolo con sempre maggiore insistenza, il tema dell’accumulazione di capitale per l’investimento di rischio. Partendo dall’antindustrialismo di rentiers e di capitalisti fondiari, egli individuava nell’arretratezza delle banche italiane, ostili non solo ai prestiti per l’investimento produttivo ma anche tiepide nel credito d’esercizio, una delle principali tare dell’economia nazionale.

Tale situazione, unita alla scarsa o nulla propensione della grande possidenza ad assumere partecipazioni nelle nascenti attività manifatturiere, lo portava a ritenere che la sola strada praticabile per finanziare gli investimenti in capitale fisso, e quindi la crescita della nostra fragilissima industria, fosse la trasformazione delle imprese esistenti (e l’avvio delle nuove iniziative imprenditoriali) nella forma giuridica delle società di capitali, ovvero le società anonime. Le quali, raccogliendo direttamente il risparmio privato mediante la pubblica sollecitazione alla sottoscrizione delle proprie azioni, avrebbero così rotto il cortocircuito rappresentato da banche e possidenza fondiaria. Il tutto nella convinzione che da ciò sarebbero emerse anche in Italia modalità di finanziamento analoghe a quelle da tempo esistenti in Inghilterra, Francia, paesi germanici, per non dire degli Stati Uniti.

Vi era tuttavia un ostacolo: la complessa, farraginosa e lunga procedura richiesta perché una società anonima ottenesse l’autorizzazione amministrativa ad operare. I tempi potevano variare dai 18 ai 24 mesi, tanto che non poche volte l’autorizzazione arrivava quando ormai l’idea-business della società era sfumata nel nulla. A ciò si aggiungevano i gravosi vincoli e controlli cui le anonime venivano sottoposte dalle autorità di sorveglianza.

La battaglia intrapresa da Rossi (dal marzo 1870 proseguendola in Senato) per una più snella disciplina delle anonime, e l’abolizione dei vincoli che le soffocavano, fu lunga e travagliata, concludendosi solo quando, nel 1882, il nuovo Codice di Commercio recepì totalmente la sua impostazione.

Se la pubblica sollecitazione del risparmio privato per supplire al credito bancario fu la risposta di ripiego, e quindi debole, che Rossi riuscì a dare al problema degli investimenti in capitale fisso, va detto che per un certo numero di imprese essa in qualche modo funzionò. E ciò ad opera dei banchieri privati, sia come sottoscrittori in proprio che per conto dei loro clienti.
Il mercato mobiliare, infatti, era all’epoca, inconsistente: basti pensare che, nel 1885, la Borsa di Milano era giunta a trattare solo 23 società, che salirono a 54 a fine 1900.

Il lanificio Rossi all'inizio del 900, era la maggiore impresa laniera italiana

Il lanificio Rossi all’inizio del 900, era la maggiore impresa laniera italiana

I banchieri privati ebbero peso anche nella trasformazione della ditta individuale del senatore di Schio in S.A. Lanificio Rossi (1873), con annesso incremento di liquidità per nuovi investimenti. In questa complessa operazione un ruolo particolare fu svolto dal lombardo Eugenio Cantoni, peraltro anche imprenditore cotoniero di rilievo, che da un lato sottoscrisse la maggioranza relativa del capitale e, dall’altro, vi veicolò l’ingresso di azionisti terzi.

L’investimento del Cantoni era puramente finanziario, e lasciava a Rossi – secondo azionista per capitale sottoscritto – sia la guida formale della società (la Presidenza) che i pieni poteri sulla gestione tecnico-economica. Il tutto all’interno di un lucido disegno che dava al laniere scledense due risultati: uno privato (un parziale disinvestimento dal settore laniero utile ad altre profittevoli diversificazioni merceologiche), e uno di rilievo pubblico-pedagogico. Che consisteva nel sottolineare come l’esercizio del potere in una impresa economica dipendesse, più che dal controllo proprietario, dalle competenze e dal merito. Era, in embrione, il primo emergere in Italia – poi dal Rossi ulteriormente affinato – del concetto della direzione manageriale d’impresa.

La sollecitazione del risparmio privato come alternativa al credito bancario, tuttavia, non impedì al laniere di muoversi anche su quel terreno: promuovendo, con un variegato numero di banchieri privati milanesi, veneziani e padovani, la nascita della Banca Veneta di Depositi e Conti Correnti (Padova, 1871) che, nel progetto iniziale, si proponeva di essere polo di aggregazione, promozione e diretta sottoscrizione azionaria di svariate iniziative imprenditoriali. Fu, in parte, e in limitate dimensioni, una sorta di anticipazione di quello che fu poi il modo di operare della Commerciale e del Credito Italiano.

Punto di riferimento, anzi capo riconosciuto dell’industrialismo italiano, Rossi fu il fondatore delle due prime associazioni tecniche imprenditoriali (quella dell’industria laniera, e poi dell’industria cotoniera), nonché prolifico scrittore di articoli e saggi a supporto del processo industrializzante. La consultazione della sua sterminata corrispondenza testimonia, poi, del ruolo di catalizzatore di una classe dirigente in formazione, ma anche del “patronage” che egli seppe esercitare verso i molti aspiranti imprenditori che a lui si rivolgevano per consigli, e che ebbero sempre una risposta puntuale, e spesso determinante per il loro successivo successo.

Con la sua morte, il controllo del Lanificio passò a un gruppo finanziario milanese, che tuttavia, dopo la prima guerra mondiale, non fu in grado di evitare un progressivo appesantimento dei costi e un inesorabile deterioramento della redditività e del valore del titolo. Il che indusse la Marzotto di Valdagno, concorrente diretta, a progettarne nel 1928-29 la “scalata” azionaria con l’obiettivo di divenire il primo produttore del paese: essa conseguì sì la maggioranza relativa delle azioni, superando il gruppo milanese come primo azionista, ma non poté sostituirlo nella gestione perché il Codice di Commercio dell’epoca prevedeva, per acquisire il controllo di un concorrente, la maggioranza assoluta.

Giulio Savoini, un simbolo del Lanerossi Vicenza

Giulio Savoini, un simbolo del Lanerossi Vicenza

La mala gestione del gruppo milanese così continuò. Fino a quando, nel 1962, sull’orlo del fallimento, l’ENI decise, più per motivi politici che sociali, di rilevarla, semplificandone la denominazione sociale in Lanerossi. Nel 1987, dopo ingenti investimenti risanatori, non sempre felici, e perdurando la radicale lontananza dal core business della compagnia petrolifera, ne venne decisa la privatizzazione. La gara vide contrapporsi la Benetton alla Marzotto. Vinse la società valdagnese, che tuttavia – non avendo più le esigenze di crescita che essa aveva a fine anni Venti – nel giro di pochi anni assorbì nei suoi stabilimenti le produzioni prima svolte nell’area scledense, alla fine chiudendone i relativi stabilimenti. Probabilmente sarebbe successo anche con la Benetton: giacché entrambi i contendenti – anche la Marzotto, seppur meno necessitata –miravano in realtà ai cospicui crediti d’imposta cumulati dal gruppo scledense.

Oggi, in Marzotto, della Lanerossi sopravvive solo il marchio, utilizzato prevalentemente per le coperte, prodotto “pregiato” dell’ex-impresa scledense, e in parte per alcuni tessuti maschili. Del resto, anche la Marzotto è molto diversa da quella vincente multinazionale del tessile e del fashion creata da Pietro Marzotto tra gli anni ’80 e ’90 del secolo passato. Essa, più che dimezzata, e non più quotata, è ritornata ad essere solo una impresa tessile di tipo tradizionale, anche se con qualche nicchia di qualità. Il motivo? Le ricche plusvalenze che il nuovo gruppo di comando realizzò dopo aver sconfitto in un aspro conflitto familiare Pietro Marzotto, scomparso nell’aprile scorso, vendendo i grandi marchi del fashion (Hugo Boss in testa) da questi nel tempo, e con pazienza certosina, acquisiti.

Una fine amara per una lunga storia: anzi per due! Ma è il capitalismo, bellezza, verrebbe da dire.

E invece no. È un “certo” tipo di capitalismo…

Quello che non piaceva a Pietro Marzotto. E che non piace neppure a me. Ma tant’è!

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