Salario minimo: proposte del Movimento 5 stelle e Pd a confronto

scritto da il 03 Giugno 2019

Co-autori del post sono Marco Palladino – classe 1993, laureato magistrale in Economia e Scienze Sociali alla Bocconi e ricercatore associato presso Insead – e Alessandro Zona – classe 1993, laureato Bocconi e ora da più di un anno in Bce – per il think tank Tortuga, tramite il quale pubblicano questo contributo.

Archiviate le elezioni europee, è tempo per il governo di tornare a legiferare sui temi nazionali di maggiore urgenza, come l’istituzione di un salario minimo per legge, prioritario per il Movimento 5 stelle. Questa legislatura è stata finora molto prolifica sul tema, con varie proposte provienenti da buona parte dell’arco parlamentare. Di particolare interesse sono le proposte di M5s e la più recente del Partito democratico.

Perché un salario minimo nazionale: la proposta dei M5s

In Italia non esiste un salario minimo stabilito per legge, ma i lavoratori sono salvaguardati dai contratti collettivi del lavoro (Ccnl), accordi nazionali tra sindacati e organizzazioni datoriali che stabiliscono una retribuzione minima vincolante. Il Movimento 5 stelle ha proposto l’introduzione di un salario minimo di 9 euro lordi, che costituirebbe una soglia sotto la quale i contratti collettivi nazionali non potrebbero scendere. Perché questa proposta può essere ragionevole?

Il primo motivo risiede nella parziale inefficacia dell’attuazione dei Ccnl. In un recente studio, l’economista Andrea Garnero ha calcolato che in media l’11% dei lavoratori è sottopagato rispetto ai minimi tabellari, soprattutto giovani, donne e dipendenti con contratto a tempo determinato, specialmente in Italia meridionale. Ad esempio, nel settore agricolo a quasi un terzo dei lavoratori non è garantito il minimo stabilito.

Garnero afferma che, in primo luogo, la causa è la mancanza di controlli e risorse per assicurare la conformità ai contratti collettivi. Alcuni datori di lavoro infatti tendono a ricorrere ad alternative al di fuori della legalità per ridurre i costi: preferiscono lavoratori in nero o chiedono straordinari non pagati (poiché i Ccnl stabiliscono il minimo mensilmente). L’alto numero di tipologie di contratti collettivi (quasi 900) permette inoltre ai datori di lavoro di eludere la regole simulando errori di classificazione e applicando ai propri dipendenti il minimo tabellare di un livello inferiore. Bisogna considerare anche la diffusione dei cosiddetti contratti pirata, stretti da sindacati minori e non rappresentativi, che stabiliscono un salario minimo più basso della norma, permettendo di tagliare legalmente le retribuzioni.

Le stesse criticità si riscontrano anche nei dati: l’aumento costante del valore dei contratti collettivi negli anni non ha portato a un corrispondente aumento delle retribuzioni effettive tra i salari più bassi, grazie ai possibili metodi elusivi già descritti. Il trend potrebbe in realtà continuare anche dopo l’adozione della legge, che secondo l’Istat si tradurrebbe in una perdita media dell’1,2% di margine operativo lordo per le aziende. Va inoltre tenuto conto che il livello di 9 euro lordi corrisponde a circa l’80% del salario mediano orario a livello nazionale, un valore molto superiore all’intervallo 40-60% in cui troviamo la grande maggioranza degli altri paesi che hanno adottato questa misura. È possibile dunque che un livello relativo tanto alto scoraggi ulteriormente le imprese.

Boeri, Garibaldi, e Ribeiro, nel loro studio del 2011, come altri economisti in precedenza, sostengono invece la possibilità che il salario minimo rappresenti un riferimento per una giusta retribuzione anche per i lavoratori irregolari, e che dunque i salari nascosti al fisco aumentino di conseguenza. Se da un lato ciò può sembrare ragionevole, è anche vero che il salario minimo – per quanto descritto nel paragrafo precedente – sarebbe associato a un probabile aumento dell’incidenza del nero. Insomma, la sola scelta del livello rischierebbe di generare un poco piacevole trade-off tra quantità e qualità del lavoro in nero. Sarebbe invece necessario scoraggiare un ulteriore aumento del lavoro in nero, per esempio accompagnando l’introduzione di un salario minimo orario con un intervento fiscale che miri ad abbassare il costo del lavoro.

La proposta del Movimento 5 stelle di introdurre il salario minimo che costituisca un pavimento per i Ccnl, quindi, potrebbe effettivamente portare ad aumentare i salari solo assicurandone la compliance in maniera omogenea su tutto il territorio e incoraggiando il rispetto dei minimi tabellari e della legge.

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La nuova proposta del Pd

Anche il Partito democratico ha presentato nel mese di aprile una nuova proposta di legge in materia a prima firma Nannicini, in cui vi sono alcuni aspetti tecnici interessanti e innovativi. Al contrario della proposta M5s in cui i 9 euro lordi fungono da pavimento alla contrattazione, il Pd ribadisce il primato dei contratti collettivi nazionali.

La prima novità rispetto allo stato legislativo attuale sarebbe l’istituzione di un salario minimo di garanzia negli ambiti di attività che risultassero non coperti dai contratti nazionali. Da un lato, questo meccanismo dovrebbe permettere di non definire aprioristicamente un minimo troppo alto, evitando dunque le distorsioni. Dall’altro, il vantaggio della fissazione di un minimo unico e universale sta invece nel creare fin da subito maggiore consapevolezza e diminuire drasticamente la complessità.

La seconda novità risiederebbe nella creazione di una cabina di regia che si occupi di certificare la rappresentatività delle associazioni sindacali e delle associazioni datoriali e di stabilire ambiti, efficacia e criteri di aggiornamento del primo livello di contrattazione e del salario minimo. Questa commissione, istituita presso il Cnel, sarebbe composta da un ugual numero di rappresentanti dei sindacati e delle organizzazioni datoriali, e supportata da tecnici. Una commissione di questo tipo è d’altronde  presente anche in Germania e in Regno Unito. Può essere positivo il riconoscimento dell’importanza di un organo di controllo e monitoraggio, il cui corretto funzionamento è necessario per garantire la compliance e monitorare periodicamente il sorgere di eventuali distorsioni. Crediamo inoltre che una chiara identificazione degli attori della contrattazione possa portare a ridurre la complessità dell’attuale sistema e all’eliminazione degli accordi pirata.

Infine, sia nella proposta targata Pd che in quella M5s, l’intento è fissare soglie a livello nazionale. Ma il nostro paese è caratterizzato da importanti eterogeneità, sia in termini di produttività che di potere d’acquisto. Avrebbe senso ragionare dunque di possibili variazioni regionali dei minimi a seconda delle differenze in termini di reddito, produttività del lavoro, tasso di occupazione, come suggerito qui.

Una premessa a forme di contrattazione decentrata

Per concludere, il salario minimo ha come prima finalità garantire giusto ed equo trattamento economico a chi presta lavoro, oltre che una garanzia contro abusi o forme di concorrenza salariale al ribasso. Si tratta inoltre di uno strumento che può anche contribuire alla sfida del rilancio della produttività e della competitività delle aziende italiane, se inteso come premessa necessaria all’attuazione concreta di forme efficaci di contrattazione decentrata. Forme di contrattazione a livello regionale o aziendale possono essere infatti strumenti importanti per stimolare le imprese a innovare, ad accrescere la propria produttività e resilienza, specialmente in tempi di incertezza o crisi. La rigidità contrattuale è infatti una delle variabili che complicano l’habitat delle aziende in Italia, assieme a pressione fiscale, burocrazia, carenza di infrastrutture e di formazione, difficoltà di accesso al credito e criminalità organizzata. La contrattazione decentrata permetterebbe, in effetti. una diversificazione retributiva (anche tra stabilimenti dello stesso gruppo) che incentivi l’innovazione, il miglioramento del welfare aziendale e la realizzazione di reti di impresa. Si tratta di un livello contrattuale che è già previsto nel nostro ordinamento e che ha visto la luce in diverse realtà (sebbene spesso limitate al nord e tra le grandi aziende), ma che ancora non ha raggiunto il suo potenziale, specie tra le Pmi.

Le ragioni sono due. La prima è che il contratto nazionale (Ccnl) rappresenta una garanzia di trattamento economico che non ha eguali in altre forme di contrattazione (sancito dai minimi tabellari). Rinunciarvi espone il lavoratore a forme di dumping salariale, dalle quali spesso non avrebbe le possibilità di tutelarsi. La seconda ragione è che per attivare forme di contrattazione decentrata sono richiesti solidi meccanismi di rappresentanza e partecipazione dei lavoratori in azienda, indispensabili per intese di lungo periodo con il management. Esempi possono essere gli accordi su investimenti e difesa dell’occupazione, in cambio di un rinvio degli aumenti salariali, oppure la realizzazione di premi di risultato o di meccanismi di flessibilità sull’orario di lavoro.

La creazione di un salario minimo potrebbe risolvere il primo ostacolo, garantendo i minimi anche per i lavoratori non coperti dal Ccnl e ampliando la cornice di garanzia. Il secondo ostacolo andrà invece risolto attraverso altri strumenti, come gli incentivi alla concertazione tra lavoratori dipendenti e imprenditori, in accordo con le diverse associazioni di categoria.

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