Pandemia e digitale, così sono emersi i punti deboli del sistema Italia

scritto da il 03 Agosto 2020

L’autrice di questo post è Maria Elena Viggiano. Giornalista, segue progetti di internazionalizzazione per le Pmi e di innovazione –

Blockchain, cybersecurity, 5G, big data, sharing economy, Internet of Things, smart cities sono termini entrati nel linguaggio comune, così come è ormai largamente condiviso il concetto che la trasformazione digitale ha una rilevanza strategica per la competitività e la crescita dell’Italia. Da un decennio l’innovazione tecnologica è al centro dell’agenda politica ed istituzionale con ingenti investimenti, programmi a livello nazionale e locale, gruppi di lavoro e task force che dibattono sul tema. Nonostante ciò, secondo gli indicatori del Digital Economy & Society Index (DESI) realizzato dalla Commissione europea per monitorare lo stato della digitalizzazione dell’economia e della società dell’Unione, nel 2020 l’Italia è tra gli ultimi paesi europei posizionandosi solo davanti a Bulgaria, Grecia e Romania. Peggio del 2019 quando si era collocata al 24° posto. Il verdetto finale è impietoso: viviamo in un “medioevo digitale”.

Un gap tecnologico che non solo ci allontana da altri paesi europei simili per caratteristiche socio-economiche come Germania, Francia e Spagna ma che diventa ancora più drammatico se contestualizzato a livello globale. Gli Stati Uniti e la Cina sono leader indiscussi e i grandi players internazionali sono le big tech americane come Micrososft, Apple, Amazon e Google o cinesi come Alibaba e Tencent. In particolar modo la Cina, nel giro di pochi anni, è riuscita a creare un proprio ecosistema digitale diversificando completamente l’offerta rispetto all’Occidente. Ciò è stato possibile grazie agli ingenti investimenti pubblici, alle attività di ricerca e sviluppo messe in campo dalle aziende private e ad una visione strategica di medio e lungo termine per la crescita del paese. È nota ormai la “Belt and Road Initiative”, un piano economico-infrastrutturale senza precedenti che coinvolge Asia, Europa ed Africa e la sua ramificazione della “Health Silk Road”, una Via della Seta della Salute, che ha l’obiettivo di garantire la sicurezza sanitaria di miliardi di persone. Un progetto digitale, oltre che fisico.

“Solo fino a quattro mesi fa si discuteva se la fibra fosse uno degli investimenti da fare nel medio termine, oggi sembra sia chiaro a tutti e non solo agli addetti ai lavori che è necessario mettere mano ad una infrastruttura che in Italia ha più di 70 anni” racconta Elisabetta Ripa di Open Fiber, in occasione della presentazione del Libro bianco per il digitale realizzato dal Cento di economia digitale. Un documento che contiene 85 proposte di policy divise in 3 ambiti (società, imprese e Pubblica Amministrazione) per favorire una accelerazione dello sviluppo del digitale in Italia. “La nostra proposta è utilizzare una parte significativa del Recovery Fund e destinare annualmente per il periodo 2021-2024 l’1% del Pil a favore di investimenti nell’alta tecnologia” – afferma Rosario Cerra, fondatore del Centro – “secondo le nostre analisi ciò potrebbe generare un effetto moltiplicatore sul Pil pari a 2,4 volte, con un impatto complessivo di circa 160 miliardi di euro”.

Ma è solo una questione di risorse economiche investite? La diffusione della pandemia Covid-19 ha evidenziato i punti deboli del sistema Italia: infrastrutture non adeguate, mancanza di competenze digitali e poco coinvolgimento dei cittadini. Nello stesso tempo, il cambiamento delle abitudini degli italiani ha determinato una forte richiesta di servizi digitali facendo emergere un quadro di poca diffusione delle tecnologie e di forte disparità sociale. Secondo i dati Istat relativi al 2018-19, la quota di famiglie senza un computer o tablet a casa è del 33,8%, dato che arriva al 41% nel Mezzogiorno (ma Calabria e Sicilia sono rispettivamente al 46% e 44,4%). Sempre nel 2019, solo il 38% della popolazione di età compresa tra i 16 e i 74 anni aveva effettuato acquisti online e il 34% aveva utilizzato l’Internet banking. La didattica online, lo smart working, la necessità di acquistare beni online e di usufruire dei pagamenti elettronici, la fruizione dei servizi audiovisivi sono stati i fattori che hanno determinato uno stimolo a nuovi comportamenti.

È quindi evidente che stiamo assistendo ad un cambiamento culturale imperniato intorno al digitale. Lo storico evento determinato dal Coronavirus non ha fatto altro che accelerare i processi già in corso e sottolineare che la diffusione delle nuove tecnologie cresce se vengono percepite come abilitatori capaci di migliorare la qualità della vita. Come sottolineato anche nel Libro bianco, bisogna rafforzare l’educazione digitale per sensibilizzare i cittadini su alcune tematiche come la tutela della privacy, l’attenzione alle fake news, la raccolta dei dati o le problematiche legate al lavoro, ambito in cui c’è il timore che l’essere umano possa essere sostituito dalle macchine. L’obiettivo è far comprendere che la società è in una fase evolutiva e, come nei precedenti passaggi epocali, alcuni ambiti subiranno profonde trasformazioni.

In questo modo, quando si parla di innovazione sarà più chiaro che non è una parola astratta e vaga ma che sono processi che vanno ad impattare direttamente sulla vita delle persone ed i suoi campi di applicazione sono trasversali: dall’economia alla salute, dalla scuola alla Pubblica amministrazione. Deve però esserci una visione d’insieme del sistema Paese con regole e linee guida chiare e semplici. Si parla di semplificazione per permettere ai cittadini ed alle imprese di usufruire di servizi in rete in modo facile ed accessibile ma nella realtà si scontrano con quella che possiamo definire una “burocrazia digitale”. La complessità delle procedure, la moltiplicazione di database, la frammentazione dei processi: in Italia sono state portate nel digitale le distorsioni e la disorganizzazione dei sistemi, fino ad arrivare al paradosso che, in alcuni casi, le procedure online si sommano alla burocrazia tradizionale.

Secondo la CGIA di Mestre, il costo annuo della burocrazia è di 57,2 miliardi di euro, una cifra che comprende l’eccesso di adempimenti amministrativi e di circolari che disciplinano il rapporto con la Pubblica Amministrazione. Per la maggior parte delle imprese le direttive sono indecifrabili e necessitano del supporto di consulenti e commercialisti; una situazione che sicuramente si è aggravata con la pandemia. Il nodo da sciogliere è qui. Standardizzare la modulistica, permettere la compilazione di documenti solo online, incrociare le banche dati e, soprattutto, formare i dipendenti pubblici per accrescere la loro professionalità e per favorire la creazione di nuove competenze digitali. Un cambio di mentalità che deve essere messo in atto dalla società, dalle imprese e dalla PA per una vera trasformazione digitale.

Twitter @mariaelenaviggi