Se il dibattito è questo meglio evitare l’agonia ai talk show, spegnere la tv e studiare

scritto da il 28 Novembre 2015

Oggi la politica campa di televisione. Non scende più tra la gente. Non ha alcun rapporto con i cittadini, figurarsi con i giovani. E in tv dominano le urla, i rimbrotti, le affermazioni apodittiche. Il ragionamento non è consentito. La persona seria e pacata, che invita a leggere i dati, a fare dei ragionamenti, ha la peggio e ne esce delusa perché non riesce a bucare lo schermo.

Il mezzo è il messaggio, come ci insegnò il “padre del villaggio globale” Marshall McLuhan, per cui la tv è inadatta alla logica. È puro intrattenimento. Da non confondere con l’informazione e, maggior ragione, con la conoscenza. Nei talk show, già in conclamata crisi di ascolti, i soliti ospiti giocano il ruolo a loro attribuito. Non possono uscire dal seminato. Appena aprono bocca, si indovina alla lettera cosa diranno. Spesso la solita minestra riscaldata.

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Mi torna in mente una lettera di Paolo Baffi – dimessosi due anni prima dalla carica di governatore della Banca d’Italia – a Eugenio Scalfari. Era il 4 aprile 1981. Dopo aver seguito un dibattito in tv tra il direttore di Repubblica e Luciano Lama, segretario della CGIL, Baffi scrive: «La povertà delle argomentazioni (se così si possono chiamare) di Lama mi ha veramente spaventato. Sia che non ci creda, mi sono detto, sia che questo sia il livello del dibattito all’interno delle Confederazioni, sarà difficile far trovare ai social partners la via della ragione».

Argomentare? Giammai.

Oggi le cose non sono cambiate. L’attuale segretario della CGIL Susanna Camusso sostiene che Tito Boeri, presidente dell’INPS, «è ossessionato dal ricalcolo contributivo, come se i contributi versati dai lavoratori dessero vita a una proprietà ingiusta». In tv non è possibile ribattere che in molti casi i contributi non sono stati versati. Vogliamo parlare dei contributi “figurativi” dei rappresentanti sindacali?

Piuttosto, Camusso dovrebbe spiegare agli italiani perchè la CGIL nel 1995 si oppose al metodo contributivo per tutti (qui un’eloquente storia in breve del dissesto previdenziale, raccontata da @maitre_a_panZer su Econopoly, ndr). L’allora presidente del Consiglio, Lamberto Dini, cambiò all’ultimo momento idea – facendosi uccellare dalle parti sociali – e regalò a tutti i lavoratori con 20 anni di anzianità laute pensioni non correlate ai contributi versati. Eppure già nel 1995 la speranza di vita era in forte ascesa e il calo della natalità rendere evidente che il sistema a ripartizione non era più sostenibile. Sono ragionamenti che si possono fare in tv? Giammai.

In un divertente saggio – “Volevo dirti che è lei che guarda te. La televisione spiegata a un bambino” (Bompiani, 2006) – Paolo Landi, pubblicitario, spiegò che in tv non si fanno programmi, ma si vendono teleutenti agli sponsor: «La televisione non serve ai bambini, sono i bambini che servono alla televisione». Possiamo dirlo anche per i ragazzi e gli adulti. Anche per questo non siamo affatto sorpresi dalla crisi dei talk-show, dove si vive un mondo che non c’è, dove vince chi urla di più, il demagogo di turno.

Landi a un certo punto scrive: «Due minuti. Senza una guerra o un terremoto nessuna notizia dura in tv più di due minuti. […] Due minuti sono troppi per trattare un argomento. Ma lo spettatore non sopporta più di due minuti una storia che non gli interessa. […] Questo riduce sempre di più la televisione a un susseguirsi di sensazionalismi e colpi ad effetto, pettegolezzi e superficialità».

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Siccome crescere sani vuol dire fare esperienze e non “guardare” esperienze fatte da altri attraverso uno schermo, i ragazzi farebbero meglio a spegnere la tv (meglio non accenderla neanche) e prendere in mano un buon libro. O meglio ancora, studiare, attività che necessita di silenzio e concentrazione.

Nell’azzeccata definizione di Paola Mastracola (“La passione ribelle”, Laterza, 2015) studiare significa «stare seduti per ore in un luogo appartato, soli, scollegati da tutto il resto, con un libro aperto davanti, indugiando sulle parole, fino a memorizzare, cioè fino a quando quel che sta scritto nel libro non sia trasferito nel cervello e lì permanga se non per sempre, almeno il più a lungo possibile, e senza alcuno scopo immediato e concreto».

Chiudo con una riflessione del grande giurista Arturo Carlo Jemolo, che in “Anni di prova” (Passigli, 1991) scrisse: «Il lavoro a me più confacente è sempre stato quello di scrivere, nell’isolamento e nel silenzio». Quando, nella notte, studio in silenzio le Carte Baffi provenienti dall’Archivio storico della Banca d’Italia (ASBI) –  una delle fonti principali per le ricerche sulla storia economica e bancaria italiana degli ultimi due secoli – provo una gioia immensa.

Altro che talk show.

Twitter @beniapiccone