C’è un motivo se la speranza di crescita per il Mezzogiorno è (praticamente) zero

scritto da il 23 Aprile 2017

Post di Fedele De Novellis, partner ed economista senior di REF Ricerche

L’intervista a Gianfranco Viesti proposta da Econopoly è un elemento di novità nel dibattito, non fosse altro che per l’originalità del tema prescelto: l’economia del Mezzogiorno, questione oramai da anni caduta nel disinteresse generale. La cosa non meriterebbe attenzione se non fosse che stiamo parlando dello snodo principale rispetto a qualsiasi possibilità di ripresa dell’economia italiana.

La tesi è che Milano non è più la “locomotiva del resto del Paese”. Tesi inconfutabile, e sulla quale possiamo avanzare qualche prima riflessione con l’aiuto del grafico, che illustra l’andamento del Pil in Lombardia e nelle regioni del Sud negli anni della crisi. Che la metafora della locomotiva non possa funzionare è evidente: una locomotiva guida un treno, in cui tutti i vagoni procedono alla stessa velocità “grazie” alla locomotiva che li traina. Qui invece siamo in presenza di una locomotiva che procede da sola (e con qualche fatica), lasciando il resto del treno in panne. Al massimo sarà concesso ad alcuni passeggeri dei vagoni rimasti indietro di salire sulla locomotiva.

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La divaricazione nelle performance dell’economia italiana negli ultimi anni non basta naturalmente a sposare una lettura morale, nel senso che un processo di sviluppo non deve strutturarsi secondo uno schema “altruista”. Resta però anche vero che la dimensione dei divari di crescita che si è determinata nel corso della crisi non è del tutto slegata dalle politiche economiche adottate. Se vi è consenso sul fatto che la politica di bilancio restrittiva ha evidentemente pesato in misura maggiore sulle aree in cui l’incidenza del pubblico sul totale dell’economia è maggiore, non altrettanto chiaro è se e come si potesse contrastare questo tipo di politica.

La Banca d’Italia fornisce la dimensione quantitativa del trasferimento di risorse dalle regioni del Nord a quelle meridionali, elaborando una ripartizione territoriale del conto della Pa. In estrema sintesi, stando ai dati del 2014, il centro Nord ha un avanzo primario pari a circa il 7,5 per cento del proprio Pil, il Mezzogiorno un disavanzo primario che supera il 15 per cento del Pil. La ripartizione territoriale della spesa per interessi non è immediata, ma difficilmente una stima ragionevole del deficit di una ipotetica “repubblica del Sud” si posizionerebbe lontano dal 20 per cento del Pil.

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A partire da una quantificazione di questo genere, si comprende come, quando è arrivata la crisi, e si è avviata la fase delle politiche di austerità, un alleggerimento della correzione fiscale sulle regioni del Sud avrebbe richiesto misure tali da portare a un ulteriore sovraccarico alle aree del Nord, che comunque stavano anch’esse sperimentando una fase di recessione e politiche di bilancio restrittive. La conseguenza è stata quindi che i saldi di finanza pubblica delle diverse aree si sono mossi all’incirca allo stesso modo. Senza addentarci troppo nei dettagli, questo comporta che la politica fiscale è stata più restrittiva nella parte del Paese dove la recessione è stata più profonda.

La verità è che un modello di sviluppo caratterizzato da un accentuato dualismo, e con meccanismi compensativi basati essenzialmente su trasferimenti di risorse finanziarie (peraltro distribuiti con criteri migliorabili) rivela le proprie debolezze proprio nelle fasi in cui la crisi morde, e nelle quali la competizione per le risorse si fa più aspra, ridimensionando il sostegno finanziario per le aree più deboli nel momento in cui ne avrebbero più bisogno.

Questo solleva allora il quesito sulle prospettive. Ci si deve domandare sino a che punto uno schema basato su trasferimenti di risorse di questa entità sarà sostenibile ancora nell’immediato futuro se, come molti paventano, e come lo stesso DEF appena pubblicato dal Governo anticipa, ci verrà richiesto di rispettare puntualmente i target europei, e di accentuare la fase di correzione fiscale portando il nostro deficit dal 2,4 per cento del Pil del 2016 al pareggio nel 2020.

Una nuova correzione fiscale di dimensioni rilevanti che non potrà non essere, almeno pro-quota, sostenuta anche dalle economie meridionali. Se a questo si aggiunge che il leitmotiv delle politiche degli ultimi anni è quello dello scambio fiscale via riduzione degli oneri sociali finanziati con aumento della fiscalità indiretta, cioè un mix che favorisce gli esportatori e scoraggia la domanda interna, si comprende come la speranza di crescita, già scarsa per l’intero territorio nazionale, diventa praticamente zero per il Mezzogiorno.

Sostiene Viesti che Milano “diventerà un’area urbana molto forte in un Paese molto debole”. Credo abbia ragione.

Twitter @fdenovellis1 @REFRicerche