Donne in politica. Più quantità, ma troppo scarsa la rilevanza

scritto da il 09 Gennaio 2020

Il 10 dicembre la socialdemocratica Sanna Marin è stata nominata alla carica di Primo Ministro finlandese. La notizia ha fatto immediatamente il giro del mondo, in virtù del fatto che la nuova leader sia giovane (34 anni) e donna. I paragoni, di rado lusinghieri, con l’Italia si sono sprecati. Ma qual è realmente la situazione in Italia in termini di rappresentanza politica femminile?

Le donne in Italia rappresentano oltre la metà della popolazione, ciononostante occupano solo un terzo delle cariche politiche nazionali e meno di un quinto di quelle locali. Un dato scoraggiante per due ragioni: dimostra quanto sia lontana l’agognata parità numerica ed evidenzia un limite nella rappresentanza degli interessi e diritti specifici alla condizione di donna. I primi tentativi di aumentare il numero di donne in cariche elettive furono implementati nel 1993, quando il Governo Amato I introdusse nelle elezioni locali e nazionali le quote di genere. Questi sforzi, basati allora come oggi su liste alternate e quote numeriche, vennero vanificati due anni dopo dalla sentenza di illegittimità emanata dalla Corte Costituzionale. L’uguaglianza politica, garantita dagli articoli 3 e 51 della Costituzione, era infatti intesa fino ad allora in modo teorico, e non come obiettivo concreto da raggiungere. Nel 2003, la mancanza viene corretta tramite una legge costituzionale che esplicita il dovere della Repubblica di “promuovere,” e non più solo garantire, “con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. Vengono quindi riconosciuti gli ostacoli sociali e strutturali che impediscono un paritario accesso delle donne alle cariche politiche. Da allora, non senza polemiche e accuse, le quote di genere sono state re-introdotte nel 2004 a livello europeo e nel 2012 a livello nazionale. Al momento, le quote vengono applicate a tutti i livelli: dalle elezioni comunali alle europee, in forme quali preferenze alternate nelle liste e proporzione tra i due sessi pari almeno al 40:60 nelle liste e nei collegi uninominali.

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Cosa ci raccontano i numeri?

Guardando ai dati, è possibile osservare come la rappresentanza femminile sia aumentata. Attualmente, circa il 36% degli scranni del Parlamento sono occupati da donne, mentre nel 1994 erano soltanto il 13%. Tuttavia, la presenza in Parlamento non sempre si traduce in effettiva rilevanza. Nelle commissioni parlamentari, crocevia centrale del nostro iter legislativo, le Presidenti donne sono un’eccezione tanto alla Camera quanto al Senato e, nonostante un maggior numero di rappresentanti nell’attuale legislatura, il trend è stato piatto nel corso degli ultimi venticinque anni:

Di donne ai vertici dei dicasteri, inoltre, se ne sono viste poche. Negli ultimi venticinque anni, una media di circa 4,5 ministre per governo.

Nei ministeri chiave ancora di meno, poco più di una per governo. Nel tempo si sono fatti passi avanti, con l’attuale governo Conte II che ne presenta sette, poco più di un terzo del totale, ma soltanto quattro con portafoglio. Il governo Renzi è stato il più rosa della storia con 8 ministre, poco più del 40% del totale.

La rappresentanza locale ha invece attraversato un periodo di maggiore inclusione delle donne a tutti i livelli: comunale, provinciale e regionale. Se le amministratrici comunali erano soltanto il 6,5% nel 1989, ora sono circa il 33%.

La crescita maggiore è stata registrata nelle regioni meridionali, Campania in testa (+1185%). L’Emilia-Romagna invece è la regione più virtuosa in merito alla partecipazione politica delle donne in ambito comunale (il 38% dei consiglieri comunali è donna). A livello nazionale, il decennio che si sta chiudendo ha registrato grandi passi avanti, con un aumento della rappresentanza femminile a livello comunale e regionale rispettivamente del 75% e del 183%. Nonostante questi dati incoraggianti, rimane evidente un problema nelle posizioni apicali. Infatti, la presidenza delle regioni è stata in mano a una donna poche volte: mai più di tre regioni contemporaneamente e soltanto una regione (Umbria) ha avuto più di una presidente. Si può inoltre osservare come, nonostante un significativo miglioramento nel tempo – città rilevanti come Torino, Roma e in passato Milano sono o sono state amministrate da donne -, solamente il 14% dei comuni abbiano una sindaca donna, per un totale di 1107 sindache per 7914 comuni italiani. Se sui sindaci la strada da percorrere è ancora lunga, risulta invece positivo il bilancio per quanto riguarda gli assessori, dove la parità sembra essere ormai vicina (il 43% degli assessorati comunali è infatti guidato da donne).

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Come migliorare

Nonostante un miglioramento costante durante gli ultimi venticinque anni, il raggiungimento di un equilibrio tra donne e uomini nelle istituzioni appare ancora lontano. Per rendere più effettiva la rappresentanza femminile bisognerebbe focalizzarsi maggiormente sulle barriere che scoraggiano le donne dal competere nelle elezioni e condurre una campagna elettorale. Difatti, barriere strutturali come la distribuzione diseguale del lavoro domestico e gli stereotipi di genere risultano ancora forti fattori deterrenti per l’opportunità e la legittimazione della partecipazione attiva alla vita politica da parte delle donne. Politiche volte a conciliare lavoro, in questo caso la rappresentanza politica, e famiglia potrebbero aiutare. Un esempio il tal senso è la sperimentazione un meccanismo di “voto per delega” per parlamentari con figli piccoli assenti per motivi familiari in corso nella Camera dei Comuni britannica.

L’approccio intrapreso finora, basato su un sistema di quote, si è dimostrato abbastanza efficace nel promuovere una maggiore partecipazione femminile in politica. Un passo ulteriore in questo senso è l’adozione, su base volontaria, di quote di genere per le posizioni interne da parte dei partiti politici. Tale pratica, diffusa nel nord Europa, fatica ad affermarsi in Italia, dove tra i maggiori partiti solamente il Partito Democratico e Forza Italia menzionano nel loro statuto procedure volte a tutelare la parità di genere negli organi interni. Uno strumento più radicale per legittimare le cosiddette “quote rosa”, spesso viste di cattivo occhio, è quello suggerito dalla politologa Rainbow Murray. Secondo l’accademica, infatti, una strada da seguire potrebbe essere quella non più di presentare il problema come una carenza di rappresentanza femminile, quanto piuttosto come un’eccessiva rappresentanza maschile. Le policy da introdurre sarebbero quindi sì delle quote di genere, ma molto diverse da quelle in uso attualmente. Infatti, la prospettiva sarebbe “rovesciata”, con le quote di genere non da intendersi come un numero minimo di posti destinati ai rappresentanti di un sesso, ma al contrario, come un limite massimo. Tale cambiamento di paradigma potrebbe finalmente permettere di non percepire più le donne in politica come “altre”, una sorta di minoranza da proteggere mediante quote minime, ma come una componente fondamentale della società con lo stesso diritto a partecipare alla vita politica della controparte maschile.

Twitter @Tortugaecon